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Il razzismo però è una piaga e il calcio viene accusato di non fare abbastanza per combatterlo.
—«Ma questa non è lotta contro il razzismo, non c’è stato nessun razzismo in campo e io non sono una persona razzista: il mio idolo era George Weah e quando mi fu trovato il tumore ricevetti una telefonata a sorpresa da lui che ancora oggi mi emoziona».
Se non è lotta al razzismo, allora cos’è?
—«Si sta solo umiliando una persona, massacrando e minacciando la sua famiglia, ma per che cosa? Per una cosa che era finita in campo e nella quale il razzismo non c’entra nulla. Il razzismo purtroppo è una cosa seria, non un presunto insulto».
ll campo non deve essere una zona franca.
—«Non dovrebbe esserlo, ma si sente un po’ di tutto, anche se ci sono quaranta telecamere. Se l’arbitro dovesse scrivere con carta e penna tutto quello che sente, dovrebbe correre con lo zaino. Però finisce sempre lì, altrimenti diventa tutto condannabile, anche gli insulti ai serbi, agli italiani, alle madri».
Lei che ha avuto un cancro e una recidiva si è mai sentito discriminato?
—«Certo, per questo ritengo che se uno sbaglia è giusto che paghi, come io ho pagato la multa quando ho mostrato il dito medio ai tifosi della Roma che mi urlavano “devi morire”’. In migliaia lo gridavano a me, che sono guarito due volte da un tumore e che sono testimonial dell’Airc».
È stato più complicato gestire questa vicenda rispetto alla malattia?
—«Non c’è paragone, quella in confronto è stata una passeggiata, non ho avuto paura. Invece l’accanimento atroce che ho visto nei miei confronti in questi giorni mi ha ferito. Ho fatto tanto per togliermi l’etichetta che avevo quando ero più giovane e diventare un esempio di costanza e professionalità e ho rischiato di perdere tutto in un attimo».
Che etichetta aveva?
—«Di uno un po’ ruspante».
Ha temuto per il prosieguo della sua carriera?
—«Se ti danno dieci giornate e passi per razzista cosa fai? Poteva succedere qualunque cosa: sarei stato finito non come calciatore, che mi interessa fino a un certo punto, ma come uomo. Tutti avevano già emesso la sentenza prima ancora che uscisse. E per tanti sono razzista anche adesso: sinceramente non ci sto, le gogne mediatiche non vanno bene e soprattutto non servono per risolvere un problema come quello del razzismo che sicuramente esiste. E che non intendo sminuire nemmeno un po’: voglio che sia chiaro».
Tanti giocatori neri si lamentano che i colleghi bianchi non fanno abbastanza per combattere il razzismo. Che ne pensa?
—«Proprio perché la risonanza nella lotta al razzismo è tanta ed è importante, bisogna puntare gli obiettivi giusti».
È contento che lunedì si giochi a San Siro?
—«Sì, ma soprattutto sono contento di giocare. Se e quando arriverà lo scudetto della seconda stella, potrò esserci. A testa alta, intendo».
Se fosse tornato in campo in trasferta, si sarebbe preoccupato per la reazione dei tifosi di altre squadre?
—«Zero».
Marcus Thuram, il cui padre è da sempre in prima linea contro il razzismo, ha detto che nell’attesa della sentenza era giusto che lei non andasse in Nazionale. Pensa che tornerete con lui o con altri compagni su quello che è successo?
—«Perché no? Anche se loro mi conoscono bene».
Si aspetta di essere convocato per l’Europeo?
—«Io non mi aspetto niente. Ma per adesso preferisco non dire nulla sulla Nazionale, è giusto che prima ne discuta con Spalletti. Sono stanco, dopo oggi metto un punto alla vicenda. E non voglio parlarne mai più».
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