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Questo Samuel Eto’o arrivò all'Inter nell'estate 2009, fu una scossa per tutto l'ambiente nerazzurro. Fin dall'inizio dimostrò di poter fare cose straordinarie e così fu. A distanza di dieci anni da quel magico 2010, l'ex attaccante racconta la sua esperienza in nerazzurro alla Gazzetta dello Sport.
Eto’o, dieci anni dopo: chiuda gli occhi e scelga un’immagine di quella stagione incredibile.
«Alzo la coppa verso il cielo e non ci sono solo le mie mani a tenerla: è un flash, ci vedo anche le mani di milioni di tifosi dell’Inter, che la tirano su assieme a me».
Il suo primo contatto con l’Inter?
«Fu con quello che sarebbe diventato mio fratello Marco. La storia del suo sms si conosce: un certo Materazzi mi scrive “Se vieni tu all’Inter vinciamo tutto”, non ho quel numero in rubrica e chiedo ad Albertini: “E’ suo?”. Era il suo. Una cosa del genere non mi era mai successa in tutta la carriera: quel messaggio ha avuto un grande peso nella mia scelta. E ha fatto nascere una grande amicizia».
E con Moratti quando parlò?
«Il presidente mi chiamò poco dopo e in un francese perfetto mi disse: “Eto’o, si fidi: lei all’Inter si troverà benissimo, diventerà come casa sua”. Aveva ragione».
Lo ha definito addirittura un dio in terra.
«Chi mette il rapporto umano davanti a qualsiasi altra cosa per me è come un dio. In terra, appunto».
E Mourinho cosa le disse per convincerla a scegliere l’Inter?
«Molto semplice, mi mandò una foto della maglia dell’Inter con il numero 9: «E’ la tua: ti aspetta».
Si parlò molto del suo ingaggio da favola, ma la storia interista di Eto’o iniziò con un colpo di scena.
«Per me l’idea di partecipare alla sfida di un ambiente pieno di aspettative faceva la differenza, ma c’era anche una differenza importante fra la proposta dell’Inter e quello che chiedevo io. Quando incontrai Moratti, Branca e i dirigenti che parteciparono alla trattativa, ad un certo punto stupii tutti: “Trasformiamo questa differenza in bonus di squadra, se vinciamo la Champions nei prossimi due anni”. Dieci mesi dopo eravamo campioni d’Europa».
Lasciando il Barcellona si era sentito deluso da Guardiola?
«Sì, ma in realtà mi ero già lasciato tutto alle spalle: sapevo che avrei dovuto andarmene, stavo già parlando con diversi club, ma quel messaggio di Materazzi rallentò qualsiasi altra trattativa in corso. Sentii che era l’Inter la strada giusta».
Nella stagione di gloria 2009-2010 si vide un Eto’o diverso da sempre: «solo» 16 gol stagionali e lei diceva sempre che meno di 25 non li contava neanche. Decisivo più che risolutivo, visto che fu la pedina tattica fondamentale di quel Triplete.
«Io sentii subito di avere una fortuna: ero dove volevo essere. E chi era il vero Eto’o si vide il secondo anno: ancora uno degli attaccanti piu decisivi d’Europa. Quanto alla tattica, feci solo quello che dovevo, quello che meritava un gruppo così».
Anche giocare esterno, facendo a volte addirittura il terzino?
«Terzino puro solo a Barcellona, ma quella fu un’emergenza. E comunque ciò che pensai quella sera in realtà fu il mio pensiero di tutto l’anno. Quando fu espulso Thiago Motta, Mourinho chiamò me e Zanetti, ci spiegò come metterci in campo: non avevo neanche il tempo di riflettere su quanto avrei dovuto correre stando sulla fascia, mi dissi solo “Dai tutto e vedremo alla fine”. E alla fine eravamo in finale».
E Mourinho come le fece accettare, quando tornò dalla Coppa d’Africa a gennaio, di giocare a singhiozzo per un mese?
«Non era facile ma accettai, però solo fino a prima della partita contro il Catania. Poi decisi che era abbastanza, glielo dissi, e Mourinho mi stupì anche quella volta: “Ecco, adesso ho il Samuel Eto’o che volevo”. E da li è partito tutto».
Il suo lavoro, come quello del resto della squadra, aiutò Milito a segnare 30 gol, molti più di lei: come fece Diego a conquistarsi la sua fiducia?
«Grazie a Dio la gelosia non è un sentimento che mi appartiene. Diego era in un grande momento, vicino alla porta non sbagliava mai, ma in fondo faceva quello che facevo io: io giocavo per la squadra, lui segnava per la squadra».
La partita di Londra e il gol al Chelsea: il suo momento più alto di quella stagione?
«Di quella notte ricorderò per sempre due cose. Il discorso di Mourinho prima della partita: “Nessuna squadra che ho allenato può battermi”. Entrammo in campo con una determinazione diversa: non giocavamo solo per noi, ma anche per l’allenatore. E poi lo stop che feci prima di segnare, la palla scendeva e mi dissi: “Se lo fai bene, poi segni facile”. Ce l’ho ancora qui negli occhi, quel controllo».
Quattro mesi prima c’era stato un brivido diverso, a Kiev: sull’1-0 per la Dinamo a 5’ dalla fine pensò «Siamo fuori dalla Champions»?
«Partita strana, così tanto che nell’intervallo José urlò come poche altre volte: non la stavamo giocando. Il gol di Snejider fu una liberazione, ma io non mi ero mai sentito già fuori: sapevamo di essere una squadra di campioni, con la mentalità da campioni».
E il momento in cui si è detto: «Sì, vinciamo la Champions» e dunque il Triplete?
«Ho avuto una sensazione chiarissima quando ho saputo che avremmo giocato contro il Barcellona in semifinale: più importante era la sfida, più ci saremmo caricati per vincerla».
Proprio la sua ex squadra: lo vide come un segno del destino?
«Fu esattamente quello che mi dissi: stavamo per scrivere una storia troppo bella, salire l’ultimo gradino prima della finale al Camp Nou era questo, per me: un segno».
Ci racconta il suo discorso alla squadra prima della finale di Madrid?
«Non fu lungo, dissi semplicemente: “Una finale non si gioca, si vince. O moriamo in campo e portiamo la coppa a Milano, o moriamo perché a Milano non ci torniamo. Quindi vediamo di tornarci, e di portarci la coppa”».
Fu Mourinho a chiederle di parlare alla squadra.
«Sì, e non me l’aspettavo per niente: semplicemente incredibile, un’altra dimostrazione del fatto che è un signore».
Prima di Madrid, due finali di Champions e due gol: si sentì mai vicino a segnare contro il Bayern?
«Sul secondo gol di Diego Milito ero lì, ma quando segnò alzai le braccia come se lo avessi fatto io: la cosa che doveva essere uguale alle altre due finali era portare a casa la coppa, non fare gol».
Durante la festa in campo non tolse mai la bandiera del Camerun dalle spalle.
«Avevo vinto per tre popoli: quello dell’Inter, quello del Camerun e quello africano».
E’ perché, come ha dichiarato, «non si smette mai di essere interisti»?
«Esatto: se sei interista una volta, morirai interista. Non c’è un motivo e questa cosa non può cambiare: è così e basta».
(Gazzetta dello Sport)
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