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Julio Cesar: “Inter, spero di vederti presto in Champions. Handa non è il mio erede. Mancini e Madrid…”

Daniele Vitiello

L'ex portiere nerazzurro ha parlato in esclusiva ai microfoni della Gazzetta dello Sport

Sabato dirà addio al calcio giocato e si prepara a vivere l'ennesima notte ricca di emozioni di una carriera stratosferica. Julio Cesar, ex portiere dell'Inter, ha raccontato il suo stato d'animo ai microfoni dell Gazzetta dello Sport: «L’ultima partita, sì: sarà meraviglioso, ma finisce un pezzo della mia vita. Mai, neanche quando da ragazzino fantasticavo, avrei potuto immaginare una carriera così. L'addio? Me lo immagino come un omaggio: non a me, ma a chi ha permesso che succedesse tutto questo. Il Flamengo, i suoi tifosi: mi hanno preso che ero un bambino e mi hanno accompagnato finché sono diventato un uomo, pronto per il calcio europeo. Sarò io che ringrazierò loro. Piangerò? Come sanno bene i tifosi dell’Inter, me ne frego delle telecamere e non mi sono mai vergognato di farlo: se mi verrà voglia piangerò, quindi credo proprio di sì».

Firmò con il Flamengo e promise: mi godrò ogni secondo di questi tre mesi.

«E me li sono goduti anche più di quello che immaginavo. Mi sono rivisto ragazzino del Flamengo, a 38 anni me ne sono sentiti addosso 17 come loro. Come Vinicius, che qualche tempo fa mi ha fatto stringere il cuore. Mi ha detto: “Ho chiesto di restare al Flamengo fino al termine di questa stagione anche perché qui ci sei tu, per imparare qualcos’altro da te”».

Ha già deciso cosa farà dopo aver smesso?

«È possibile che rimanga nel calcio, ma non so “come”: è presto per parlare di futuro».

E allora parliamo del passato: riesce a dire qual è stata la parata più bella della sua carriera?

«Dite tutti quella su Messi nella semifinale di Champions a Barcellona e forse avete ragione voi. In quella partita, in quel momento, contro quell’avversario: una delle prime cose che insegnano a noi portieri è che una parata è bella solo se è importante. Quella fu importantissima».

L’emozione più grande?

«Non mi faccia sforzare: posso dirne tre?».

Certo che può.

«La prima, Campeonato Carioca 2001, Flamengo-Vasco: dovevamo vincere con due gol di scarto, Dejan Petkovic segnò il 3-1 su punizione a due minuti dalla fine. La seconda è ovviamente Madrid, la Champions: di sicuro il punto più alto della mia carriera. La terza, Mondiale 2014: i due rigori parati contro il Cile negli ottavi di finale».

E il momento più difficile è facile da dire, arrivò dieci giorni più tardi: Brasile-Germania 1-7. Ha sempre fatto fatica a parlare di quella partita.

«Perché faticai a capire cosa successe, ancora oggi non lo so bene. La Germania conosceva i nostri punti deboli, ma noi glieli mostrammo come un libro aperto. Giocammo male male male».

Ha detto: con Handanovic ho lasciato l’Inter in ottime mani.

«Io non mi sono mai sentito l’erede di Toldo, con cui ho avuto un rapporto bellissimo, e Handanovic non è stato il mio erede: lui è un grande portiere, ma l’Inter sarà sempre più importante di qualunque suo giocatore».

Quanto tornerà a Milano, per vederla a San Siro?

«Spero di tornare per una partita di Champions League. Dunque presto, spero».

Ce lo racconta un segreto di questi vent’anni?

«Ero arrivato all’Inter da poco: seconda di campionato, Palermo-Inter. Mancini in settimana mi fa: “Corini lo conosco bene, se sulle punizioni gli sistemi la barriera al contrario lo mettiamo in difficoltà”. Ero perplesso, ma gli dico: “Tu sei il boss, faccio come mi dici”. Il sabato, punizione di Corini e palla all’incrocio. Tre settimane dopo andiamo a Torino a giocare con la Juve. Mancini: “Con Nedved ho giocato, occhio che le punizioni le tira basse sul tuo palo”. Punizione di Nedved: sopra la barriera e 2-0. I giornalisti iniziano a martellare: che scarso Julio Cesar sulle punizioni. Alla ripresa prendo il Mancio da una parte: “Boss, facciamo così: se sbaglio, sbaglio io, ma d’ora in poi scelgo io. Ok?”».

E se potesse scegliere come essere ricordato, da domenica in poi?

«Con il mio sorriso, il sorriso di uno che ha cercato di essere amico di tutti. Un buon compagno di squadra. Anzi, ex compagno. Purtroppo».