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Domenica sera l'Inter affronterà il Milan nel derby. Intervistato dal Corriere dello Sport, un grande ex nerazzurro che ha deciso parecchie stracittadine di Milano ha parlato di questo big match. Ecco le parole di Diego Milito:
Diego Milito, come vede il derby?
«Una partita molto equilibrata. Sono sempre stati così, i derby. Sono partite uniche, particolari. Si vince con la concentrazione, con la grinta, più che con la classe sopraffina. Sono partite sempre molto chiuse e i particolari fanno la differenza, nel risultato».
Quale è il derby più bello che lei ricorda di aver giocato?
«Il primo che ho fatto a San Siro. Il 4 a 0 è stato sicuramente uno dei più belli. Giocammo una grandissima gara».
Chi può essere l’uomo decisivo di questa partita da una parte e dall’altra?
«Uno mi auguro possa essere Lautaro Martinez. Lo conosco, è un ragazzo fantastico. Anche dall’altra parte ci sono grandi giocatori. Personalmente spero non sia nessuno del Milan, spero che vinca l’Inter. Ma il Milan è in grado di fermare i nerazzurri se non saranno concentrati. Tra i milanisti, se devo dire quelli che fanno più paura, citerei Higuain e Suso».
Secondo lei la Juventus può vincere la Champions?
«Sì, può farlo. Ha grandissimi giocatori ed è una squadra abituata a vincere».
Tra Messi e Ronaldo chi è più forte?
«Messi è un grandissimo campione, è straordinario. Lui è il migliore».
Mi racconta come ha cominciato a giocare a calcio da bambino?
«Ho iniziato con i calzoni corti nel mio quartiere, a Buenos Aires, Quilmes, in una squadra del rione che si chiamava Pico Bueno. Lì ho fatto i primi passi, nella vita e nel calcio, insieme. Poi all’età di nove anni sono andato al Racing di Avellaneda. Mi ha portato mio cugino che giocava lì, lui era due anni più grande di me. Così è cominciata la mia carriera. Ho cominciato nel settore giovanile, infantile si chiama a Buenos Aires, e ho fatto tutto il percorso fino alla prima squadra. E nel 1999 ho fatto l’esordio da titolare».
Cosa facevano i suoi genitori di lavoro?
«Mia mamma era casalinga, stava sempre con noi. Mio papà era metallurgico, ha ancora una piccola azienda a Buenos Aires».
I suoi sono calabresi?
«Sì, mia nonna e mio nonno da parte di mio padre erano calabresi, di Terranova da Sibari in provincia di Cosenza».
Lei sente un legame con questa terra?
«Tantissimo, tantissimo perché ho avuto la fortuna di crescere a fianco di mia nonna e mio nonno che mi raccontavano sempre l’Italia, il loro paese. Soprattutto la nonna era molto legata alla sua terra e non faceva che decantarne la bellezza. Ho sempre sentito questa doppia identità, infatti io sono argentino e sono anche italiano. Non c’è nessuna contraddizione. Anche se mio papà è nato là, noi siamo cresciuti in una famiglia italiana».
Chi era il suo idolo quando lei era bambino? Calcisticamente.
«A me è sempre piaciuto tanto Enzo Francescoli. E hanno sempre detto che gli assomigliavo, anche di faccia».
Cosa c’era nella sua stanza da bambino che avesse a che fare con il calcio?
«Tante foto, tante foto dei giocatori della mia squadra. Sono tifoso del Racing e ho sempre portato i suoi colori, che sono quelli dell’Argentina, nel cuore. Il calcio è sempre stata la mia vita. Fin dai sogni coltivati in quella stanza. Sono nato con un pallone sotto il braccio».
Il calcio italiano allora cosa era per lei?
«Era il Napoli e Maradona. Ci incontravamo la domenica mattina nel quartiere per stare davanti al televisore e vedere il Napoli di Maradona. Lui era il nostro idolo, il mito lontano. L’Italia era la patria dei miei nonni e il luogo del mio eroe. Qualcosa di importante».
Il suo Paese ha conosciuto la tragedia dei Desaparecidos. Che cosa era, per un ragazzo cresciuto dopo, la memoria di questa tragedia?
«Io non l’ho vissuta perché è successa prima che io nascessi. Ma ho sentito i racconti e quindi so che è stata una tragedia, come sempre accade quando la libertà viene meno».
Lei ha avuto Maradona come allenatore. Com’era?
«In primo luogo era tutto emozionante. Lei pensi cosa può significare essere allenato dal mito con il quale si è cresciuti. Per noi Maradona era Maradona e averlo davanti, non una immagine sul teleschermo, era choccante. Poi sono passati i mesi e tutto è diventato più naturale. Lui è molto bravo, anche come tecnico. D’altra parte stiamo parlando di uno dei migliori giocatori della storia. Capisce molto di calcio. Con lui, in Nazionale, è stata un’esperienza felice».
Perché lei non ha avuto la carriera che meritava in Nazionale?
«E’ una bella domanda. Me lo sono sempre chiesto. Cerco di vedere il bicchiere mezzo pieno per non deprimermi. Nella Nazionale argentina abbiamo avuto sempre dei grandi attaccanti. Sono fortunato ad aver giocato un Mondiale, due Coppe America. Lei pensi che nel mio mondiale, quello del 2010, avevamo, davanti, Messi, Tevez, Agüero, Higuain, Palermo. Sicuramente mi sarebbe piaciuto giocare molto di più, però capisco che a volte c’è tanta concorrenza, abbiamo tanti attaccanti bravi e per gli allenatori è difficile scegliere. Mi rimane un solo rimpianto: non aver disputato il Mondiale in Germania, nel 2006».
Che cosa è stato per un ragazzo argentino ad un certo punto prendere l’aereo, cambiare continente e venire a Genova? Se lo ricorda il momento in cui ha abbandonato il suo Paese?
«E’ stata dura perché era per me una sfida professionale e umana. Quando l’ho detto ai miei genitori pensavo di stare tre anni e mezzo a Genova, era quella la scadenza del contratto, e poi tornare a Buenos Aires. Questo pensavo. Ma il calcio dopo mi ha dato tanto e mi sono fermato quasi undici anni in Europa, fra Italia e Spagna, ed è stato bellissimo. Però non è stato facile. Quando ho preso l’aereo mi sono detto che dovevo essere forte mentalmente. Lasciavo il mio paese, la mia famiglia e la mia vita si sarebbe svolta in un posto nuovo, che non conoscevo. Per fortuna mi sono trovato in un Paese straordinario. Essere un po’ italiano mi ha aiutato. Sono legatissimo all’Italia e ho ancora tanti amici».
Perché Messi non è un giocatore vincente in Nazionale?
«Io non credo che non sia vincente in Nazionale. E’ il giocatore che ha fatto più gol nella storia della Nazionale argentina, quindi mi sembra a volte anche un po’ ingiusto parlare del fatto che lui non sia vincente. A volte non si tratta solo di lui, è una questione anche di squadra. Il calcio è una questione di squadra, non è uno sport in cui un singolo possa bastare. Credo che Lionel non abbia trovato in Nazionale i presupposti per esprimersi al meglio. Ha fatto tantissime partite buone, ha fatto tre finali, due in Coppa America e una nel Mondiale, nelle quali poteva sicuramente vincere. Io credo che comunque, anche se non ha vinto un Mondiale, sia uno dei giocatori migliori nella storia del calcio».
E’ vero. Però non è che l’Argentina di oggi sia più debole di quella di Maradona. In fondo Messi ha giocato con Di Maria, con Higuain, con Mascherano, con giocatori obiettivamente più forti di quelli dei tempi di Maradona. Ma Maradona era un trascinatore e vinse tutto quello che si poteva vincere. Messi non ci è riuscito…
«Sì, è vero che Diego aveva questo carattere. Ma a me non è mai piaciuto fare i paragoni fra loro perché, per noi argentini, non sarebbe buono e neanche giusto. Dobbiamo goderci, nella memoria e nella realtà, tutti e due perché abbiamo la fortuna che i due campioni assoluti della storia del calcio siano argentini. Purtroppo Messi non ha potuto vincere ma è un giocatore pazzesco. Ho avuto la fortuna di giocare con lui e di vedere cosa fa mentre è in campo. E le dico una cosa: io mi auguro che possa in futuro vincere, perché può ancora giocare in Nazionale».
Lei ricorda il ponte di Genova? E ha un pensiero per le persone che oggi soffrono per quello che è successo?
«Lo attraversavo ogni giorno per andare ad allenarmi. E’ stata una tragedia. Ero in Argentina e sono rimasto di sasso. Mi sono tornate in mente tutte le volte che da solo o con la squadra l’ho attraversato. Ho cercato subito i mei amici di Genova. E’ una ferita che ha tagliato la città, l’ha spezzata in due. E non solo fisicamente». Chi è stato l’allenatore più importante della sua vita?
«Una domanda difficile. Io ho sempre detto che da tutti ho imparato qualcosa. Quelli inArgentina, nel settore giovanile. E poi in Italia ho avuto dei grandi allenatori: Mourinho è stato sicuramente uno dei migliori. Ma se devo sceglierne uno indico Bielsa, che mi ha dato molto. E’ stato l’allenatore che mi ha dato la possibilità di giocare in Nazionale e mi ha fatto imparare tanto, tecnicamente e tatticamente».
Cosa aveva di particolare l’Inter del Triplete?
«Eravamo veramente un grandissimo gruppo. Non solo campioni, belle persone.Come giocatori eravamo un gruppo straordinario, avevamo un sogno: vincere la Champions. Io sono arrivato all’Inter e mi hanno fatto subito capire che l’obiettivo era vincere la coppa e questo abbiamo fatto. Mi sono sempre detto di essere stato fortunato a far parte di un gruppo straordinario. Ragazzi con un grande cuore, grinta e con grande talento. E insieme abbiamo fatto una cosa molto bella. Che resterà nella storia del calcio. Non solo in quella dell’Inter».
Mourinho era un allenatore con che caratteristiche rispetto agli altri?
«E’ l’allenatore che dice la parola giusta nel momento giusto, che capisce i momenti, un allenatore che riesce a tirare fuori il cento per cento da ogni calciatore. Questo non è da tutti. Mourinho è uno dei migliori del mondo, poche storie».
Le chiedo una risposta sincera: si ricorda un litigio nello spogliatoio in qualcuna delle partite che lei ha giocato?
«Il primo anno che ero all’Inter siamo andati a Marassi per affrontare il Genoa. Era la prima volta, per me. Io venivo da tanti anni lì e avevo tanti amici, compreso l’allenatore. Tutti mi volevano bene e anche io volevo bene a loro. Venivamo da una grande annata a Genova e quindi per me era una partita speciale. Il primo tempo ho giocato malissimo. Mi sentivo spaesato, ero emozionato, confuso. Nello spogliatoio Mourinho mi dice “Ma te la senti di giocare contro i tuoi amici? Vai fuori, ti tolgo perché oggi non sei lo stesso”. Io ho detto, spavaldo: “Mister, tranquillo, gioco”. Abbiamo pareggiato 0 a 0, non abbiamo giocato bene quella partita. Io ho vissuto malissimo quei novanta minuti. Ripensandoci, Mou aveva ragione. Non ero io, in campo, contro i miei amici del Genoa».
Chi è il difensore più duro che lei ha incontrato nella sua carriera?
«Ho avuto tanti difensori bravi contro i quali ho dovuto giocare. Walter Samuel per me è stato uno dei più forti, senza dubbio. E poi Alessandro Nesta e Paolo Maldini, ovviamente».
Quello che l’ha picchiata di più chi è stato?
«Non si metta a ridere ma tra i molti c’è certamente, e in buona posizione, mio fratello.Poi Puyol e Nicolas Burdisso, un amico e anche lui molto bravo. Ma il calcio è così».
Il gol più bello della sua carriera quale è stato?
«Per bellezza, per importanza, quello della finale di Champions, il secondo gol alBernabeu. Anche quello della finale di Coppa Italia con la Roma è stato molto bello».
Se lei dovesse indicare una maglietta, una sola , della sua carriera e portarla su un’isola deserta quale sceglierebbe?
«E’ difficile. Mi vengono in mente tante maglie di partite che sono speciali per me. Comunque quella dell’esordio in prima squadra con il Racing, la prima maglia in Nazionale o quella della finale di Madrid sono sicuramente molto speciali».
Chi è il giocatore più intelligente in campo e anche fuori dal campo con il quale lei ha giocato?
«Cambiasso, non ho dubbi».
E il lancio più bello che lei abbia avuto?
«Uno che mi dava dei palloni magnifici era Wesley Sneijder. Ma anche Stankovic era molto bravo a mettere la palla in profondità. Ci guardavamo e bastava».
Lei ha avuto un infortunio molto serio. Come ricorda quel momento?
«E’ stato sicuramente il momento più brutto della mia carriera. Per fortuna prima non avevo mai avuto niente di importante e in quel momento mi è caduto il mondo addosso. E’ stato un infortunio molto grave, ho sentito subito un dolore incredibile. Sapevo già che era un infortunio che mi avrebbe bloccato a lungo. Ma né il dolore né la rabbia hanno fatto venir meno in me la voglia di tornare, di giocare al calcio, di proseguire il mio sogno di bambino».
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