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Intervistato da La Gazzetta dello Sport, l'ex presidente dell'Inter Massimo Moratti racconta il Triplete di 10 anni fa. Iniziato il 5 maggio 2010 e concluso il 22 maggio a Madrid. Era già fissata una data per celebrare assieme alla squadra quest'anno, ma la pandemia ha fatto saltare tutto.
«Organizzato con Mou e giocatori. Tavolo già prenotato per il 22 maggio al ristorante El Botin di Madrid».
Moratti, per rivivere il Triplete partiamo dalla Coppa Italia. Quel 5 maggio servì ad esorcizzare quello del 2002?
«Niente viene esorcizzato nel calcio, quel 5 maggio resta. Anche se Milito poi lo rese meno amaro. Io però nel dubbio per scaramanzia quel giorno a Roma non andai...».
Quanto pesò quel successo?
«Gettammo le basi per il resto. Vincendo peraltro la sfida più dura delle tre, soffrendo in puro stile Inter. La Roma era la rivale storica di quegli anni e ci teneva a superarci. Servì una prodezza da fuori, un gol non da Milito».
Seconda tappa, quella scudetto, a Siena.
«Altra battaglia, ma diversa. L’avversario era meno forte della Roma ma giocò con una determinazione feroce. Poi Zanetti decise che bisognava riscrivere la storia, ne dribblò un po’ e servì un pallone d’oro a Milito».
Ci fu modo di festeggiare o la testa era già a Madrid?
«Fu festa vera anche in spogliatoio. Lo scudetto ci preparò al meglio per la Champions. Ricordo il rientro in auto a Milano: una lunga onda nerazzurra, i tifosi che mi affiancavano anche per farmi gli auguri di compleanno. Bellissimo!».
Sei giorni dopo arriva la sfida contro il Bayern.
«Fu paradossalmente la meno difficile. Avevamo sofferto abbastanza a Barcellona. Emotivamente, la Champions l’abbiamo vinta al Camp Nou. La partita più drammatica della mia vita. Giocata quasi interamente in 10 per l’espulsione ingiusta di Thiago Motta. Vedere Eto’o sacrificarsi in fascia rincorrendo chiunque fu un segnale forte. Lì capimmo che il destino era dalla nostra parte, che potevamo superare ogni ostacolo».
Quale fu la vera svolta di quella Champions?
«Segnando negli ultimi minuti 2 gol alla Dinamo Kiev evitammo l’eliminazione nel girone, ma la svolta arrivò nell’ottavo col Chelsea. Dopo anni di sofferenza in Europa, capimmo di essere una squadra vera. Mou fece un capolavoro tattico».
Torniamo a Madrid. La prima cosa che le viene in mente.
«Sembrerà strano, ma è un’immagine vista dopo in tv. Una ragazza coi capelli corti e la maglia nerazzurra che piange a dirotto. L’emblema della felicità regalata a tanta gente. Poi il primo gol di Milito, per l’importanza e la bellezza, quell’esitazione con cui fece perdere il tempo a portiere e difensore. Diego era così, classe purissima: anche i suoi silenzi erano delle lezioni».
In porta lo mandò Snejider. Quelli per l’olandese furono i 16 milioni meglio spesi durante la sua presidenza?
«Wes cambiò l’Inter, le permise di alzare il ritmo, le diede una nuova dimensione».
Dopo tante spese, quella rosa le costò appena 150 milioni.
«Vero. A parte l’operazione col Genoa per Milito e Motta e lo scambio Ibra-Eto’o più soldi, da poco era arrivato Julio Cesar. E Cambiasso a parametro zero, grande intuizione di Branca. Ancora non mi spiego come fece il Real a perdere uno così. Il Cuchu arrivò con Mancini, iniziò benissimo ma lo staff tecnico pensava che grazie al suo fisico andava in forma prima. Invece è stato un crescendo. Prima o poi Cambiasso allenerà l’Inter».
Maicon a 6 milioni?
«Al tempo qualcuno mi prese in giro per quella spesa. Intanto arrivò il più grande terzino destro della storia dell’Inter!».
Quello sinistro invece si vide la notte di Madrid dall’alto...
«Ho pensato a Facchetti dopo ogni vittoria. Figuriamoci quella. “Dopo tante sofferenze insieme, dovresti essere qui a godertela anche tu” gli dissi».
Come festeggiò a Madrid?
«Ero svuotato, avendo centrato l’obiettivo rincorso da sempre. Pensai “ora cosa può andare storto? Ah già, Mou che ci lascia...”. Decisi di non rientrare a Milano con la squadra perché non c’era Mou e non volevo essere io al centro dell’attenzione. Lasciai che a portare la Coppa a San Siro fosse mio figlio Mao, che come il resto della famiglia mi era stato vicino in quel percorso».
Prima di tornare a Mou, quanti meriti di quei trionfi vanno attribuiti a Mancini?
«Tantissimi. Aveva costruito la casa negli anni precedenti. In Italia prima di lui non vincevamo, anche perché c’era una ragione molto importante... È un grande allenatore, come sta confermando in Nazionale. E pensare che decisi di prenderlo dopo che nel Natale 2003 mi regalò una maglia di lana dell'Inter con uno scudetto enorme e nel biglietto scrisse “Se vuole tornare a vincere, io sono a disposizione...”».
Veniamo a Mou e alle frasi un po’ polemiche di Milito.
«All’addio di Mourinho ero preparato. Fu comunque doloroso, ma ricordo che quando ci abbracciammo in campo gli dissi che a quel punto poteva fare quello che voleva. Fu lì che lui iniziò a piangere».
Non ne avevate già parlato?
«Mai! Non volevo rompere l’incantesimo. Però ci scambiammo qualche sguardo che valeva più di tante parole. Ci siamo rivisti due sere dopo. Venne a cena a casa mia, con la Coppa a centro tavola. Quante risate!».
Milito invece a fine gara disse: «Non so se resto».
«Quella sera commisi l’errore di non dire che era da Pallone d’oro. Forse Diego non si sentì abbastanza apprezzato. Ma non diedi peso alle sue frasi».
Qualcuno disse che dopo un anno così andava venduto.
«Mi viene ancora da ridere. Era al top e se non si fosse infortunato si sarebbe ripetuto l’anno dopo. Se hai una squadra così forte e non hai bisogno di soldi, perché dovresti cambiarla? La verità è che sbagliai la scelta dell'allenatore. Benitez era bravissimo, ma non era la persona giusta. Avrei dovuto prendere subito Leo, non a Natale».
Ci furono altri errori nella gestione del post Triplete?
«Non ci preoccupammo di capitalizzare quell’impresa. Mi occupai delle cose di campo, meno di quelle commerciali. Era un calcio che cambiava».
Ci svela un aneddoto di Madrid che ora non infastidirebbe l’interessato?
Ride... «Ma no... Al limite c’era Snejider pressante per avere un mio orologio che gli piaceva. E pensi che valeva un millesimo di quanto guadagnarono loro quell’anno e che di regali ne avevo già fatti abbastanza...».
Mou e Conte sono simili?
«Non conosco abbastanza bene Conte per giudicare. Ma sono due martelli, ossessionati dal calcio, dalla voglia di dar tutto».
Lautaro può lasciare l’Inter.
«Se arriva Messi, ci sto. E se Leo è impossibile, al posto del Toro vorrei Dybala».
È favorevole alla ripresa?
«Meglio preparare la prossima stagione. Ma ci sta che uno come Lotito parli da tifoso».
Assegnerebbe lo scudetto?
«Ora non è una priorità. Però l'Inter ha tutto per vincerlo».
Andrea Agnelli ha messo un like al post di un tifoso che non vorrebbe lo scudetto, perché la Juve non è come l’Inter.
«C'è una leggerissima differenza. Allora si trattava di una truffa, qui di un virus che ha paralizzato il mondo».
Fermarsi qui toglierebbe alla Juve il sogno Triplete.
«Avranno altre occasioni. Se mi darebbe fastidio un loro en plein? Nessun record resiste in eterno. Di sicuro il Triplete non ce lo toglierà nessuno».
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