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Il 22 maggio di 10 anni fa l'Inter saliva sul tetto d'Europa battendo il Bayern e conquistava lo storico Triplete. A 10 anni di distanza da quella grande impresa, La Gazzetta dello Sport ha intervistato il tecnico di quell'annata José Mourinho:
Arrivò all’Inter ridendo e facendo ridere («Non sono pirla») e se ne andò piangendo e facendo piangere, abbracciato a Materazzi: più vittorie o più sentimenti?
«Il meglio in carriera l’ho dato dove ero a casa, dove sentivo le emozioni del mio gruppo, dove sono stato al duecento per cento con il mio cuore: più una persona che un allenatore. Per questo a Madrid ero più felice di vivere la felicità degli altri - da Moratti all’ultimo dei magazzinieri - della mia stessa felicità: io una Champions l’avevo già vinta. Mi è capitato di pensare prima a me che agli altri: all’Inter, mai. Questo succede in una famiglia: quando diventi padre, capisci che c’è qualcuno più importate di te, e passi al secondo posto».
Quanto scrive «papà» Mourinho sulla chat di gruppo su whatsapp?
«Dieci anni dopo siamo ancora tutti insieme. Proprio l’altro giorno ho parlato con Alessio, ai miei tempi era autista del club: dove e quando succede che un allenatore che va via, dieci anni dopo parla ancora con un autista? Mai. Questa è l’Inter per me: questa è la mia gente».
Le è successo in altre squadre?
«Esistono anche altri rapporti: io allenatore, tu giocatore. L’empatia dipende dalla capacità di accettarmi per come sono, è come un puzzle: all’Inter c’era gente che aspettava uno come me per completare quel puzzle. Io non sono mai fake, sono originale: sono io e punto. Sono stato anche una testa di cazzo, però ero io».
Quando?
«Soprattutto dopo la sconfitta di Bergamo (3-1, gennaio 2009). Fui molto violento con i giocatori, solo dopo avergli detto che avevano vinto scudetti di merda e basta capii che li avevo feriti, perché solo dopo capii le cose che erano successe prima. E mi scusai».
Urlò di più a Bergamo, nell’intervallo di Kiev o dopo Catania?
«A Catania ero squalificato, li aspettai in pullman e avevo la testa un po’ più fredda: dissi tutto il giorno dopo... A Kiev era più calda: “Possiamo essere eliminati, ma non così”. E dopo “così”, furono cinque minuti molto violenti. Però poi abbiamo cambiato il chip e insieme siamo andati fino alla fine. E comunque il giorno più difficile della stagione è stato dopo il pareggio di Firenze».
Più svolta a Kiev o a Londra?
«Per la Champions, Kiev: all’85’ eravamo fuori, se cambi il tuo destino in 4’ è sempre un momento chiave. Ma è stata fondamentale anche Roma, il 5 maggio: il sogno era la Champions, lo scudetto era un obbligo, vincere la Coppa Italia fu come dirci “E una, passiamo alla seconda”. Mi piace rivedere quella partita con uno dei miei assistenti, Giovanni Cerra, malato della Roma: piange ancora...».
E quale delle tre “finali” invece ha sofferto di più?
«Quella di Coppa Italia non la volevo giocare: l’inno della Roma prima della partita, arrivai a provocare “Fermate la musica o ce ne andiamo”. A Siena avevo paura: sei giorni dopo c’era la grande finale, temevo non giocassero quella partita come una finale. Zero a zero al 45’, la Roma vinceva 2-0, nello spogliatoio un caldo tremendo, non capivo come aiutare la squadra a svoltare tatticamente. Fu molto dura, e non finiva più. Avevo detto: “Un giorno mi piacerebbe vincere un campionato all’ultima”. Quel giorno mi dissi: “Mai più”».
Torniamo all’inizio: il suo primo contatto con Moratti.
«A Parigi: a casa sua, non in un hotel nascosto. Voleva farmi sentire voluto, ma anche a casa, e io sentii tutta la passione di un innamorato, capii che aveva non un’ossessione, la parola non mi piace, ma un grandissimo sogno: la Champions».
E’ esatto dire che la Champions dell’Inter nasce a Manchester, nel marzo 2009?
«Sì perché quel giorno ci siamo detti con chiarezza che la qualità dell’Inter bastava per vincere lo scudetto, non la Champions. Che dovevamo cambiare anche tatticamente. I giocatori dentro lo spogliatoio erano tristi, fuori nessuno di noi piangeva: io, Moratti, Branca e Oriali eravamo già a parlare di linea difensiva più alta, di giocatori adatti ad almeno due sistemi di gioco, dei profili che ci servivano, di chi poteva restare».
E a fine luglio, a Boston, avrebbe detto addio a Ibrahimovic.
«Ma il casino successe prima, a Pasadena, il giorno dell’amichevole contro il Chelsea. Tormentone da giorni: “Ibra va al Barcellona, non va al Barcellona”, lui da superprofessionista quale è giocò 45’, ma poi nello spogliatoio disse: “Vado, devo vincere la Champions”. I miei assistenti italiani erano morti - “Senza di lui sarà impossibile vincere” - i compagni non volevano perderlo. Ero preoccupato anche io, ma mi uscì così: “Magari tu vai e la vinciamo noi”. Ero stato un po’ pazzo, ma nello spogliatoio cambiò l’atmosfera. Poi dissi a Branca: “Se lui vuole andare a Barcellona, cerchiamo di prendere Eto’o”. Lui e Milito tatticamente potevano dare una diversità alla squadra».
L’altra diversità la diede Sneijder?
«Diversità tattica. Serviva qualcuno che legasse il centrocampo a due attaccanti dalla mobilità tremenda, lui era perfetto. A un certo punto non ci speravo più, ma la prima opzione era lui e Branca mi disse: “Non mollare, facciamo insieme pressione su Moratti”. Da quel giorno chiamai Moratti tutti i giorni: “Serve Wes, Wes, Wes”».
E scatenò l’inferno per fargli giocare subito il derby, senza un allenamento con la squadra.
«Sfinii il team manager Andrea Butti, l’uomo che fa succedere l’impossibile: “Il transfer: deve giocare”. Poi andai da Wes: “Giocheresti?”. Nei suoi occhi non vidi sorpresa o paura: “Gioco, e quando sono stanco esco”. “Questo ha le palle, è uno di noi”, mi dissi. La domenica derby, 4-0, storia».
Se dovesse dire quale fu la sua Inter perfetta: quella?
«Vicina alla perfezione: gol pazzeschi, controllo totale, il Milan, quel Milan, distrutto anche psicologicamente. Ma la partita simbolo della mia Inter è l’ultima: perché l’abbiamo vinta prima di giocarla e non è normale che in una finale di Champions tutti, non solo l’allenatore, sentano così forte di avere tutto sotto controllo».
Tre passi indietro, Stamford Bridge: nascono il sacrificio di Eto’o e il nuovo vestito tattico della sua Inter.
«L’unica cosa da fare con Eto’o è entrare nella sua testa: da quel momento è un giocatore facile. Samuel ha un orgoglio tremendo, dovevo convincerlo solo del modo migliore per giocare la Champions. Quello, con Anelka in più, era il mio Chelsea. Lo conoscevo a memoria e parlai con gli attaccanti: “L’ideale è affrontarli con il 4-2-3-1, ma per giocare tutti dovete fare questo, questo e questo”. E dieci anni fa non in tanti giocavano con un piede sinistro a destra e un destro a sinistra».
Quell’Inter fu, assieme al Real, la squadra più lontana dall’etichetta del Mourinho difensivista?
«La partita iconica del Mourinho difensivo è stata quella del Camp Nou, ma quel Barcellona aveva perso 3-1 a San Siro e noi ci eravamo guadagnati il diritto di andare a giocare da loro come volevamo. E se Pandev non si fosse infortunato nel riscaldamento, avremmo giocato con Pandev, Sneijder, Eto’o e Milito».
Moratti: «Barcellona, la partita più drammatica della mia vita». Può dire la stessa cosa?
«No, perché in tribuna hai tempo di vivere il dramma, al limite puoi pregare, in campo devi trovare soluzioni. Ho detto che è stata la sconfitta più meravigliosa della mia carriera: non perdemmo 1-0, ma vincemmo 3-2 in condizioni epiche».
E trovò il tempo di andare da Guardiola a dirgli qualcosa.
«Quando Busquets cadde quasi tramortito io ero in diagonale fra la nostra panchina, la loro e il punto dove Thiago Motta venne espulso. Con la coda dell’occhio vedo la panchina del Barcellona che festeggia come se avessero già vinto, Guardiola che chiama Ibra per parlare di tattica: tattica in 11 contro 10... Gli dissi solo: “Non fare festa, questa partita non è finita”».
A Madrid scelse per parlare, prima della finale, Zanetti, Eto’o e Figo, già ambassador nerazzurro: perché?
«Zanetti perché era il capitano e il simbolo di quella generazione di giocatori dell’Inter che avevano un sogno. A Eto’o ho detto: “Da te voglio il sentimento, devi spiegare cosa è una finale di Champions e come si vince”. Luis perché è un ottimista, poteva dare l’idea della felicità di giocare quella partita: lui avrebbe pagato per giocarla».
Lei festeggiò con suo figlio sulle spalle, mescolando pubblicamente i sentimenti dell’allenatore Mourinho e dell’uomo José: un inedito.
«Zuca (José junior) quando vinsi la Champions con il Porto aveva quattro anni: c’era, ma non ricordava nulla. Prima di affrontare il Barcellona mi disse: “Voglio una Champions da poter ricordare per tutta la vita”. Sopra le mie spalle se la sarebbe ricordata meglio».
Perché non tornò a Milano con la squadra?
«Perché se fossi tornato, con la squadra intorno e i tifosi che avrebbero cantato “José resta con noi”, forse non sarei più andato via. Io non avevo già firmato con il Real prima della finale: chi ha detto che qualcuno del Real venne nel nostro hotel prima della finale disse una cazzata. Prima della finale successe solo che scoprii lo scatolone con le maglie celebrative e scappai per non vederle. Io volevo andare al Real: mi voleva già l’anno prima, andai a casa di Moratti a dirglielo e lui mi fermò, “Non andare”. Al Real avevo già detto no quando ero al Chelsea, al Real non puoi dire no tre volte. Oggi forse potrei stare 4-5-6 anni nello stesso club, ma allora volevo essere il primo - e sono ancora l’unico, fra gli allenatori - ad aver vinto il titolo nazionale in Inghilterra, Italia e Spagna. Allora mi dissi: “Sto qui due giorni, firmo il contratto e vado a Milano quando non posso più tornare indietro”».
E due sere dopo era a cena con Moratti e la Champions sul tavolo. Ma quando aveva deciso davvero di andare? E quando lo disse a Moratti?
«Avevo deciso dopo la seconda semifinale con il Barcellona, perché sapevo che avrei vinto la Champions. Moratti l’avevo preparato: senza bisogno di parole, la temperatura del nostro abbraccio in campo gli fece capire cosa volevo. Mi disse: “Dopo questo, hai il diritto di andare”. Era il diritto di fare quello che volevo, non di essere felice: e infatti sono stato più felice a Milano che a Madrid».
Dunque fu solo per vincere, non per il rumore dei nemici...
«Cento per cento ambizione. Il rumore dei nemici, che poi piangevano, era bellissimo: era più forte il tremore del rumore, e se ci pensa bene è la stessa cosa: quando c’è rumore è perché c’è paura».
L’ultima sua foto interista: perché scese dall’auto e andò ad abbracciare Materazzi?
«Perché Marco era il simbolo della tristezza di tutti noi, e di quello che deve essere un giocatore di squadra. Quando la squadra aveva bisogno di lui - Chelsea, Roma, Siena - lui era lì. Io sono cattolico e credo a queste cose: forse è stato Dio a metterlo lì contro quel muro, come ultimo giocatore che ho visto: con lui, abbracciavo tutti i miei giocatori. E dico una cosa: mi fa molto strano che oggi uno come lui - da allenatore, direttore, magazziniere, autista, non so - non sia all’Inter».
Per un po’ di tempo e più di una volta, lasciata l’Inter, ha detto: «Un giorno tornerò». Perché ha smesso di dirlo?
«Lo so perché mi sta facendo questa domanda. Ma io non sono pirla...».
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