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Per ora Spalletti è ricordato come il tecnico che ha riportato l'Inter in Champions, ma l'allenatore nerazzurro vuole ben altro dalla sua avventura a Milano. Queste le sue parole al Corriere della Sera:
Luciano Spalletti lei ha preso l’Inter fuori dall’Europa e l’ha portata in Champions. Cosa ha trovato e a che punto è la costruzione?
«Il nemico maggiore era la mancanza di fiducia. Ho cercato di far capire ai calciatori che tutti eravamo di fronte allo stesso ostacolo e lo avremmo potuto superare solo come Inter e non come Perisic, Icardi o Miranda. Aver raggiunto la Champions ha convertito la rassegnazione in entusiasmo. La squadra è in evoluzione, ma so già che non arriverà mai a essere come quella che è nella mia testa: quando ci si avvicina, mi viene naturale alzare l’asticella e pensarla ancora più forte».
In questi 17 mesi ha sentito la pressione dell’Inter, la paura di poter essere esonerato: come ci convive e la gestisce?
«È il contesto dove sei nato a fare la differenza. Quando sei Floyd Mayweather sai che farai il pugile. Quando nasci Manny Pacquiao non lo sai se farai il pugile, ma se poi uno così lo diventa andarci contro è come combattere con una corazzata. Se sento le pressioni? Dopo l’Empoli ho preso l’Ancona, che veniva da 13 sconfitte. Se inizi dal mio contesto, la paura la trovi sul bordo della strada. La sento fin dalla prima panchina e spero di sentirla a lungo. Quando non la avverti più sei piatto, non dai niente. Se non gestisci stress e pressioni non puoi vincere, perché non gestirai neppure il successo».
In estate si è parlato di Modric. All’Inter per colmare il gap con la Juve quanti giocatori di quel livello occorrono?
«Parliamo di un livello di calciatori fatti e capaci di insegnare agli altri come si fa. L’inserimento di top player è la scorciatoia per diventare fortissimi».
L’Inter infila sette vittorie e poi cade contro l’Atalanta. Qual è il lavoro da fare?
«Lazio-Inter dello scorso campionato, per come si era messa, aveva i connotati per far pensare a un nostro tipico blackout. Abbiamo trasformato un eventuale buio nel più luminoso fascio di luce verso la Champions. I vantaggi degli avversari scaturiscono dalle nostre rinunce, in quel caso non li abbiamo alimentati. Capita di non farsi trovare pronti dopo un filotto, significa che ho sbagliato le scelte».
All’Inter ha prima ricostruito, ora sta costruendo: qual è il traguardo ultimo?
«C’è un progetto ambizioso per un castello che non sia di carte, ma di mura solide. Il traguardo? All’Inter è concesso stabilire le tappe, ma è vietato porre limiti alla posizione del traguardo finale: si vuole andare più in là».
Lei ha una media punti alta, ha sviluppato un suo calcio, raggiunto gli obiettivi per cui è stato chiamato: in carriera ha ricevuto il giusto?
«Il mio resoconto di quanto fatto fino a oggi è in pari: mi sento artefice dei miei successi e di quanto non sono riuscito a raggiungere. La domanda da porsi non è se siamo soddisfatti di quanto ricevuto, ma se siamo a posto con noi stessi per quel che potevamo dare. Io sì. Canta Ivano Fossati: «Niente di più in fondo... tutto questo è già più di tanto».
Ha più la personalità del costruttore o del rifinitore?
«Passo da una fase creativa alla consistenza e alla solidità dell’esecuzione. Il termine personalità viene dalle maschere che a teatro mettevano gli antichi romani. Ha personalità chi è capace di calarsi in più ruoli. La doppia faccia non è falsità, ma una qualità che ti fa assumere quella giusta nella situazione giusta. Se sono un fantasista devo essere spensierato, però poi se devo rincorrere ho bisogno di uno sguardo feroce».
Stagione 99-2000, a Venezia. Zamparini presidente, Marotta dg e Spalletti tecnico fu esonerato due volte. Come sono i rapporti con Marotta?
«Era ed è mio amico, uno che fa gruppo, squadra: un trequartista. Stava con me. Per quel che riguarda gli esoneri c’è poi il professionista... Zamparini (racconta sorridendo, ndr)».
«Spalletti è il dirimpettaio della follia». E ancora. «I suoi comportamenti però sono spesso deviati da paure preventive». Le ha dette Walter Sabatini. Ci si riconosce?
«È un po’ così: la grande intuizione è confinante con la follia. Se invece cercare di capire cosa mi sta per succedere significa avere paure preventive, allora sì sono io. La paura se vuol venire è benvenuta, ma è un’emozione come le altre. Se viene da me gioca con le mie regole, è sotto controllo. È il pericolo fuori controllo, la paura no: riguarda il futuro, la costruisci tu. Un calciatore dell’Inter, con i tifosi che ha dietro, non può giocare nell’Inter se ha paura».
Dopo il 3-1 alla Lazio, un giornalista di Roma le dice: «A Milano non è più aggressivo nelle risposte». Il caso Totti ha avvelenato quel periodo?
«Quell’atteggiamento non lo ritengo necessario all’Inter. Io prendo la forma del contesto. Avevo detto alla Roma che non avrei rifirmato il contratto a inizio stagione, mi attaccavano e rispondevo. Mi fa sorridere quando dicono che sono stato io a far smettere Totti. Io non ho firmato, lui poteva farlo».
Ha lasciato la Roma in Champions, ci ha riportato l’Inter. La scalata per il successo quanto è lunga ancora?
«Voglio che l’Inter ritorni nel suo grande specchio di una delle più belle del reame. Deve farsi riconoscere per quel che è la sua storia».
Lei è toscano, una terra di allenatori: questo legame in cosa la caratterizza?
«Avere un legame forte con la proprio terra non significa rinchiudersi nei propri sentimenti. A un certo punto devi vedere da fuori se quell’amore è vero, se puoi combattere per quell’amore. In Toscana ti colpisce la natura rigogliosa, cresce sempre, noi siamo così: vogliamo sempre crescere».
Parliamo di Nazionale. Come stiamo ricostruendo?
«Il c.t. Roberto Mancini ha scelto la via di un calcio propositivo di qualità e tecnica, anche perché nel confronto fisico con altre Nazionali siamo perdenti. La strada è giusta: tenere qualche giocatore esperto e inserire i giovani. In Italia non dobbiamo vedere i giovani come promesse, perché nel momento in cui sono stati scelti rappresentano il meglio del Paese».
Perché il calcio italiano vive questa crisi di talenti?
«In altri contesti sociali maturano prima. Come popolo italiano invece maturiamo tardi, in tutti i settori, e questo si riflette sul calcio. Poi c’è un altro tasto: i figli di immigrati possono dare una mano. La Germania e la Francia hanno vinto con un’importante componente multietnica».
Il calcio è impaziente, può un tecnico coltivare il talento?
«La risposta di getto è: impossibile. L’allenatore è l’anello debole. Se un giovane funziona prende i meriti, sennò è lui a pagare. Se un talento nasce ci guadagna il club, il ragazzo, i procuratori. E il tecnico? Meriterebbe un premio».
Umanamente com’è Spalletti con i suoi calciatori?
«Mi sento molto umano, ma non sono disumano. Sono sincero, baso il rapporto sui fatti. Propongono un’idea di gioco che mi affascina. Non comunico un calcio che non so insegnare, non sarei credibile. Da quando sono qui ricordo ai miei calciatori cosa vuole dire vestire la maglia dell’Inter. I contenuti giornalieri tecnici, tattici, umani fanno la differenza come la qualità dei calciatori».
Con i suoi tre figli com’è?
«Mi rende orgoglioso sapere che stanno costruendo la loro identità: non fanno il copia incolla su quello che è stato il mio passato. Il mio mondo lavorativo li affascina, è momento di dialogo, ma non li influenza sul futuro».
Dopo l’Inter dove si immagina?
«Ovunque ma non in esilio, magari in una situazione già risanata, restaurata. Solo nel dizionario il termine successo viene prima di sudore. Il successo è ciò che ispiri negli altri, quindi dico: dopo essere riuscito ad allenare l’Inter vorrei diventare l’allenatore di una delle più grandi... Inter della storia».
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