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Era allo stadio Roberto Vecchioni per Inter-Napoli, come spesso accade quando i nerazzurri sono impegnati al Meazza. Il noto cantante ha provato a raccontare le sue emozioni in una lunga intervista concessa ai microfoni della Gazzetta dello Sport: «C’era un tale caos che non si sentiva nulla, non ho sentito i buu, poi ha parlato lo speaker e ho capito. Mi si è girato qualcosa dentro. Più delusione o più rabbia? In fondo sono parole molto vicine».
Vecchioni, qual è la sensazione che prevale, da tifoso dell’Inter e soprattutto da cittadino milanese?
«Sono sconcertato, ma sono anche convinto che non accadrà più. Sconcertato perché non me l’aspettavo e perché è accaduto a noi. L’Inter è prima di tutto un modo di pensare. Ho vissuto questo fatto come un tradimento e non si può sempre dire che siano gruppuscoli, che siano comportamenti limitati a pochi. Cominciano in pochi, poi c’è il contagio, perché la moltitudine produce anonimato e uno in quelle condizioni pensa di poter fare quello che vuole. Sono frustrazioni che esplodono, una catena che prosegue nella politica e nella vita. Non doveva accadere».
Una brutta botta per la città dichiarata da poco la più vivibile d’Italia.
«Ma sono fatti separati e quello che Milano ha fatto in tanti anni non si cancella. Milano ha un’anima, uno spirito suo, ed è così da sempre. Non mette in mostra le sue grazie, però finalmente anche l’Europa e il mondo hanno scoperto quanto è bella, di una bellezza modesta, nascosta. Milano è la borghesia, è il coraggio degli operai: dentro c’è tutto. E’ l’unica vera polis italiana, è una città stato e come in tutti gli stati c’è qualcosa che non va. Serpeggiano la mafia, la ndrangheta, quindi anche la violenza. E poi ci sono i frustrati, quelli che esternano le loro frustrazioni in questi modi. A loro della partita non importa niente e probabilmente neppure del colore della pelle di Koulibaly. Insultano lui perché è bravo. Questi comportamenti sono sintomo di paura sportiva e di invidia. Una cosa molto meschina».
Che cosa si potrebbe fare?
«C’è un sistema solo, un gesto che probabilmente soltanto l’Inter avrebbe potuto fare vista la sua anima e la sua storia. Perché cambiano le squadre, ma gli interisti sono buoni. Avrei voluto che l’Inter fermasse la partita. Icardi avrebbe dovuto parlare con l’arbitro e dire “Noi ce ne andiamo”. Non spettava al Napoli chiederlo, ma all’Inter».
Si è parlato tante volte di un gesto del genere, eppure è difficile da mettere in pratica.
«È un gesto che tutto il mondo avrebbe visto. Un gesto unico,che varrebbe 30 scudetti, altro che parlare di campionati e coppe».
Il calcio in Italia sembrava in ripresa sotto tanti punti di vista, invece si scopre ancora marcio.
«Non è così tanto marcio. Il calcio non è il volley, è come l’automobilismo, forse il tennis. Il calcio produce affari, è il mondo moderno che ci ha portato a questo. Nessuno può pensare di rivoltarlo, io non ci penso più anche se mi ritengo da sempre di sinistra e democratico. Il calcio è come altre espressioni del mondo nel quale viviamo, possiamo soltanto mettere degli argini per non farlo straripare. Dobbiamo vederlo in questo modo».
E le piace ancora.
«Perché si può ancora respirare calcio, ci sono tanti bei momenti, a Milano per esempio viviamo derby bellissimi. Ecco, sarei stato sconcertato anche se fosse accaduto un fatto del genere al Milan: una squadra di signori, nemmeno loro meritano che succedano cose del genere a Milano. Una città aperta a tutte le persone di buona volontà, con un cuore grande. La diversità deve essere sacra, intoccabile, come è sacro il rivale. La rivalità sportiva ha un senso, il razzismo è un’altra cosa e non deve trovare spazio in una città che da sempre ha il marchio della solidarietà».
Quello che è accaduto a San Siro, dentro e fuori, danneggerà l’immagine di Milano tanto in crescita?
«Certo che sarà un danno, perché le altre città non vedono l’ora che Milano cada, che faccia un passo falso, per poter dire “Vedi, siamo tutti un po’ così”. Invece non è vero. Noi non siamo così. Non siamo tutti così».
Provi a sintetizzare il bello di Milano.
«Ci sarebbero talmente tante cose da raccontare, tanti spunti. La puntualità di Milano ad esempio, che è signorilità e segno di rispetto per l’altro. E il fatto che a Milano non esiste il nì: o si dice sì, o si dice no. Ma se è sì, resta sì. E’ fatto».
La classica efficienza meneghina insomma.
«Guardi che anche allo stadio è così. A Milano prima di entrare a San Siro uno spettatore deve eseguire 3-4 passaggi e non sono così attenti dappertutto. In generale, a Milano le cose funzionano. Si vive bene anche perché ci si muove bene con ogni mezzo. Milano ha una bellezza seicentesca che qualche piccola città lombarda possiede, ma nessuna grande città ha in questa misura. Ci sono giardini interni, angoli nascosti, chicche di fine Ottocento da scoprire dentro tanti palazzi. Milano è riservata, come una gatta con i suoi gattini: protegge le sue bellezze. Ed è anche una città nella quale le aree non vengono semplicemente riqualificate: si sta riempiendo di piccoli parchi pensati per far giocare anche quei bambini che a casa non hanno niente».
Eppure questo vecchio senso di solidarietà esce gravemente ferito dalla notte di domenica.
«Milano ha un suo tessuto solidale che rinasce sempre in forme diverse. Sono certo che episodi vergognosi come quello del 26 dicembre non accadranno più».
Perché prima della serata delle offese c’è stata anche la guerriglia, c’è stata tanta violenza. Si può ancora morire per una partita di calcio?
«Non trovo le parole, è più che vergognoso. Dovremmo ricordare questi fatti sempre, con il silenzio, ogni anno. E spero che tutto quello che è successo non offuschi l’immagine di questa città. Che ha preso una bella sberla, questo sì».
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