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Partiamo dall’oggi: cosa è mancato a Istanbul che a Madrid c’era?
—«Mi aspettavo una finale così, giocata alla pari e con coraggio. Le occasioni sfruttate e un po’ di fortuna, ecco cosa è mancato, ma siamo fieri di noi».
Rivede in Inzaghi qualcosa dei maestri che ha avuto qua?
—«La sua caratteristica principale è la tranquillità, la serenità nei momenti difficili. La forza di non dubitare del lavoro, di insistere: questa calma che hanno i forti l’aveva Gigi Simoni».
Al nuovo capitano argentino ha detto due paroline?
—«Ha fatto i passi giusti, con umiltà: sono felice per il cammino di Lautaro. Deve confermare la leadership con ancora più responsabilità, ma ha senso d’appartenenza e sa dare l’esempio. Questo fa un capitano, far parlare i fatti davanti ai compagni».
Se Zanetti è simbolo di integrità, Lukaku sta diventando l’opposto per i tifosi.
—«Per ciò che l’Inter ha fatto per lui ci aspettavamo un altro tipo di comportamento. Come professionista e uomo. Lui ha diritto di andare dove vuole, ci mancherebbe, bastava solo dirlo per tempo. Nessuno, però, è più grande del club e nel costruire una squadra devi sempre considerare chi metti in spogliatoio».
Riavvolgendo il nastro al passato, scelga lei le immagini per raccontare questi 50 anni.
—«La prima è la mia presentazione nel 1995 assieme a Rambert, che era molto più atteso da me. Venivo da un altro mondo, davanti a me giganti come Mazzola, Corso, Suarez, Facchetti. Lì ho detto: “Da qui mi devono spostare con i carrarmati...”. Poi le lacrime, come per le semifinali del 2003. Se riesci a rialzarti da momenti così, poi lo farai mille volte fino alla vittoria. E per questo metto Madrid, la Champions tra le mani. Un’altra foto è la partita di addio nel 2014 contro la Lazio, San Siro pieno per me. E, per chiudere, i miei tre figli, la famiglia che mi ha completato».
Chi è il più forte con cui ha giocato: vietato dire Messi o Ronaldo il fenomeno.
—«Loro stanno in un’altra categoria, allora dico Zidane: era unico, ti nascondeva la palla, con l’intelligenza, la classe, il fisico».
Chi il più sottovalutato o il più incompreso?
—«Recoba non ha espresso la sua grandezza. Pirlo è stato grande altrove, ma solo perché non era qui nel momento giusto».
Chi il più simpatico?
—«Maicon, uno spasso incredibile, e Taribo West che una volta sparì. Era in Nigeria a sposarsi e dopo le nozze doveva passare un po’ di tempo a casa...».
Ha mai pensato che se la sua Inter fosse stata meno “pazza” anche lei avrebbe gioito di più?
—«Non sarebbe stata l’Inter, così romantica e unica: non ho mai pensato a questo tratto come negativo, anzi ci rende diversi, capaci di tutto. Non abbiamo limiti in questa pazzia. Chi passa da qua ripensa sempre con gioia all’Inter, magari vuole tornare... Possono cambiare le gestioni, ma non dobbiamo perdere l’identità: per questo mi batto».
Ma in cosa consiste di preciso, questa identità?
—«Un senso di famiglia che ho respirato dal primo giorno. Una famiglia resiliente nelle difficoltà, che si rialza insieme».
E l’identità della sua di famiglia? È più argentina o italiana?
—«I miei figli erano vestiti di azzurro dopo Italia-Svezia nel 2017: piangevano per il Mondiale perso. A Doha, invece, erano tutti albiceleste: piangevano al pari della Francia, e poi abbiamo pianto insieme di gioia. Questa doppia identità è bellissima».
Ma non è che lì a Doha ha pensato pure... “peccato non esserci riuscito ai miei tempi”?
—«Nessuna invidia o rimpianto. Io ho fatto 145 gare in nazionale, un record, e ho dato tutto. Ma eravamo una cosa sola: l’ho capito abbracciando Messi».
Pupi, dove si vede da vecchio?
—«Mi vedo attivo, sempre pronto a dare tutto per l’Inter. Perché per me l’Inter ci sarà sempre. Anche se non dovessi avere un ruolo o stare fuori dal club, non posso togliermi questi colori».
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