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Zanetti: “A Madrid quella vittoria, non ero più io. Che risate con Taribo West. Mourinho…”

Eva A. Provenzano Caporedattore 

Le parole dell'ex capitano nerazzurro che ha parlato della sua carriera nel programma streaming di Giacomo Poretti

«Continuo ad allenarmi, a correre, gioco con i miei figli. Fa parte di me, lo faccio perché mi fa sentire bene. I tempi sono cambiati tantissimo rispetto alla nostra infanzia, io giocavo in Argentina in un campo di terra battuta, dove la palla aveva un coniglio dentro, così imparavamo a giocare. A volte parlo con mio figlio che gioca in campi perfetti e quando piove si lamentano pure. Ci dobbiamo noi adattare a quello che si vive adesso. Io da bambino tifavo in Argentina per l'Independiente e mi facevo le telecronache di quello che vedevo nella partita e quella è una tappa che non dimenticherò mai. Ero talmente felice con poco, le cose semplici sono quelle che ti rendono più felice, un'epoca fondamentale per me. Papà mi aveva fatto un campetto dietro casa, mia madre vendeva i dolcetti, papà mi veniva a vedere, una bella epoca».

-Ti chiamavano El Tractor già da piccolo?  

Mi è sempre piaciuto correre dietro al pallone e quello non è cambiato, poi quando sono arrivato in Italia mi sono adattato.

-Idolo calcistico da piccolo?

Il mio idolo calcistico era Bochini, il numero 10 dell'Independiente, poi ha vinto il Mondiale con Maradona. Lui ha fatto una carriera come la mia nell'Inter, ha giocato nell'Independiente tutta la vita.

-Tanti genitori ora pretendono forse troppo dai loro figli...

A volte mi allontano per non sentire certe cose. È il mondo in cui viviamo, mettere pressione ad un bimbo piccolo, a quell'età bisogna divertirsi, crescere con i valori dello sport, se poi si diventa professionisti si hanno le pressioni, ma a quell'età lì è solo divertimento e basta.


-Colta la differenza tra l'Argentina e l'Italia nel calcio?

I primi tempi era tutto molto particolare perché io tenevo palla tra i piedi, i tifosi mi dicevano bravo, i miei compagni tutti incazzati e mi insultavano perché non gli davo palla. Mi sono reso conto che il calcio argentino e quello italiano sono diversi: a noi piace portare su palla, abbiamo spazi e tempi che non si hanno in Italia. In Argentina avevo più spazi, all'Inter e in Italia hai poco tempo per pensare.

-Primo allenatore in Italia?

Ottavio Bianchi, lui mi ha chiamato e mi ha messo di fronte un foglio di carta, mi ha chiesto dove preferivo giocare. Io ho detto a destra e lui mi ha messo a sinistra dove giocava Roberto Carlos. Dopo una settimana c'era l'esordio contro il campionato contro il Vicenza. È stata un'emozione incredibile in uno stadio come San Siro, il destino ha voluto che vincessimo 1-0 e lì è iniziata la mia storia all'Inter, la prima di 858 partite. 

-Tanti allenatori avuti in carriera anche perché Moratti, a volte gli giravan le balle, e cambiava spesso allenatore...

In un anno ne abbiamo cambiati quattro, è stato un anno difficile. Quando sei in una squadra come l'Inter si è abituati a vincere. Moratti investiva tantissimo e non riuscivamo a vincere, però il tempo poi... Ricordi con questi tanti allenatori? Con tutti ho avuto grandi rapporti. Tutti, per tutto quello che hanno fatto con noi. Mi ricordo Simoni che per noi è stato un papà. Era riuscito a creare una famiglia, quello che per me è l'Inter, un gruppo compatto grazie alla sua leadership silenziosa, lui era molto chiaro, c'era un grandissimo ambiente. Hodgson? Ho avuto un episodio con lui ma ho sbagliato io. Nella prima finale di Coppa UEFA a San Siro, non avevo capito la sostituzione, entrava Berti, mancava un minuto e andavamo ai rigori. A quella sostituzione mi sono incazzato che non ho visto niente, ma ci siamo abbracciati tre secondi dopo e ora quando ci vediamo ridiamo di quello episodio. E poi ovviamente Mourinho, una persona di grande capacità, una persona di grande carisma, un vincente. Io stavo andando in Argentina, mi squillò il telefono e mi disse che aveva appena firmato con l'Inter, si presentò, mi disse che sarei stato il suo capitano e si scusò per il suo italiano che però era perfetto. Era avanti, di un'altra categoria. L'ultimo allenatore? Mazzarri. 

-Integrità morale e fisica per te, Javier: oltre al nomignolo, hai avuto solo un infortunio, abbastanza importante...

Madre natura mi ha fatto giocare fino a 41 anni senza avere praticamente mai nessun infortunio se non questo qui che mi arriva a 39 anni. Mi sono rotto il tendine d'Achille e mi sono subito reso conto che si trattava di qualcosa di grave. Tutti pensavano che poteva essere la mia carriera fosse finita, ma io già come ho capito che era grave, già pensavo a quando operarmi e rientrare. Perché non volevo smettere in quel modo lì e regalarmi un'altra stagione da protagonista davanti ai miei tifosi e smettere davanti ai miei tifosi. Lo sport come la vita è tutto come si supera quello che ti succede. Io volevo tornar e tornare bene e mi sono regalato ancora un'altra stagione. 

-Aspetto mentale degli infortuni: c'è chi non riesce ad uscirne... 

Se sei forte mentalmente difficilmente riesci a farti male, quando hai preoccupazioni per la testa, anche della vita quotidiana, può influire. Uno deve lavorare anche sulla parte mentale, devi essere resiliente, cadi e ti rialzi. Psicologo oggi nelle squadre aiutano, quando giocavamo noi non c'erano, ma ben vengano, sono utili a chi ha veramente bisogno. 

-Quando si parla di aspetto mentale si deve parlare dello Special One. Si percepiva quanto Mourinho fosse speciale. Non credo che abbia dato calcisticamente quale novità, ma quei giocatori dell'Inter sembravano trasformati...

Ci ha portati a credere che potevamo vincere anche in Europa, ci ha fatti andare oltre le nostre possibilità. Ci ha fatto credere che quello che facevamo durante la settimana ci portava a grandi risultati. C'era convinzione da parte di tutti che fosse la strada giusta, ha costruito una squadra in due anni e ci sentivamo imbattibili. Per perdere la partita gli altri dovevano fare cose straordinarie, lui era il grande condottiero. Quando lo vedi in conferenza sembra una cosa, ma in realtà è molto alla mano, comprensivo molto e trattavi tutti allo stesso modo. Non c'erano differenze e giocava chi meritava. Un leader nato.

-Chi va in panchina, anche se tu non l'hai fatta mai, cosa vive un giocatore in panchina? 

Spesso non si parla di chi va in panchina, ma sono loro che ti fanno vincere, quelli che ti fanno allenare bene, io avevo grosso rispetto per loro. Io andavo in panchina ai gol perché per me erano fondamentali e spesso possono diventare fondamentali nei momenti più importanti della stagione. Che entravano dalla panchina e ti facevano vincere la partita. Adesso ci sono cinque sostituzioni, se entrano tutti mentalmente bene possono farti vincere la partita al di là delle qualità che uno ha. Malumori? Per esempio, la squadra del Triplete era un gruppo fortissimo. Tutti si sentivano importanti. Un allenatore riusciva a  trasmettere che tutti erano importanti. Io dicevo sempre alla squadra che la cosa più importante è il gruppo, se ognuno va per conto suo difficilmente riesci a vincere.

-Mai avuto paura, Javier, nella tua carriera, di non farcela, di non vincere mai?

 La paura fa parte del mestiere, ma quando sei tranquillo con te stesso, sai di fare tutto per far andare le cose in un certo modo, prima o poi il lavoro paga. Se sei costante, se sei resiliente prima o poi i risultati arrivano, con l'Inter abbiamo faticato i primi dieci anni ma poi negli ultimi dieci anni siamo riusciti a vincere tutto. Nella vita è così, non solo nello sport. Fa parte della vita quotidiana la paura.

-Come si vive l'ansia in una partita? Per esempio, nella vittoria del campionato del 2010, c'era Siena e Inter e io ero al mare e fino a dieci minuti dalla fine non entrava. C'era un milanista che tentava di gufare, quando hai passato la palla magica a Milito e ha segnato, sono andato a cercarlo, non c'era più...

È stata più difficile della finale di Champions quella partita lì. Una tensione incredibile, soprattutto negli ultimi minuti. In quella partita abbiamo fatto gol, mancavano quattro minuti e poi Rosi, il terzino romanista, ha fatto un cross che quando la palla è uscita, ci siamo guardati, Maicon era diventato bianco, Maicon bianco (ridono tutti.ndr) e Julio Cesar poi ha sospirato. Quella partita lì e poi la semifinale di ritorno a Barcellona. Ancora la rivedo, una gara eterna, non finiva più. Poi ci segnano e mancavano sette gol e recupero. In quel campo lì, la squadra migliore in quel momento, non finiva più. Quando è arrivato il fischio la liberazione totale. 

-Ma le tre giornate magiche cominciano dalla Coppa Italia. Lì arriva un invito ad un concerto per Dalla-De Gregori, mia moglie entusiasta, voleva andare e io l'ho accontentata nonostante avessi visto la data della finale, io urlavo nel concerto gol, quando abbiamo segnato... 

Sono momenti che le mogli non capiscono. 

-E poi la finale di Madrid, lì come vi sentivate? 

Io ero in camera con Cordoba, tutti e due siamo molto credenti, lui devoto a Santa Rita. A mezzanotte accendiamo la candela per Santa Rita, nella stanza, ma ci siamo addormentati tutti e due. Meno male che non ci siamo bruciati, abbiamo rischiato di dare fuoco all'albergo. La finale, il primo impatto con il Bernabeu è stato bellissimo, c'era la nostra Curva piena, piena. Ognuno di noi, di fronte a tutta quella gente ha pensato che non poteva non regalare la vittoria a quella vittoria. Quando ho alzato la Coppa non sembravo io, spettinato. Non sono io. Era troppo bello, quel momento lì. Poi dopo aver vinto abbiamo visto il Duomo dalla tv, tutto pieno, Milano piena di interisti… solo l'Inter è così... Avevo 37 anni, facevo 700 partite con l'Inter in quella notte lì. L'arbitro dà tre minuti di recupero e Julio Cesar prende la palla, io ho iniziato a piangere, Samuel era ancora contratto. Maicon era già a fare festa. 

-Quanto è importante una famiglia per una carriera così?

Fondamentale è l'armonia a casa per chi fa questo mestiere. Io e Paula siamo da una vita insieme, lei aveva 15 anni e io 19, lei doveva ancora finire la scuola quando siamo arrivati in Italia. Adesso abbiamo tre figli, tutti e tre nati a Milano. Senza di loro, senza Paula, non avrei fatto questa carriera. 

-Devoto di Santa Rita, quanto conta la fede nella tua vita? 

Sono stato a Cascia, vado spesso in Chiesa, anche alla Pinetina ne avevamo fatta fare una. Maicon non veniva, ci guardava dalla finestra. Eppure i brasiliani indicano il cielo ad ogni gol (ride.ndr) una cosa che ancora non riesco a capire. 

-Javier, ti prego, parlami di Taribo West...

Incredibile, troppo divertente. Durante la partita 80 minuti era concentrato, poi aveva 10 minuti in cui faceva quello che voleva, prendeva palla e andava. Taribo torna e lui faceva quello che voleva, troppo divertente. Un giorno stavamo facendo tattica con Lippi, gli diceva che doveva accorciare. Allora il centrocampista dà palla all'attaccante, Lippi gli diceva di accorciare, dopo tre volte che glielo diceva e Taribo non lo faceva, a Lippi rispose 'Dio mi ha detto che non devo accorciare'. E abbiamo vinto la Coppa Uefa con Taribo West. Lippi rispose: "Ma a me Dio non ha detto niente". 

-Il più forte con cui hai giocato?

Ronaldo, ovviamente.

-Avversario che ti metteva in difficoltà?

Una volta Simoni mi disse di marcare Zidane, difficile tutta la partita. Poi il primo Kakà del Milan. Nei derby? Con Gattuso e Nedved ricordo delle lotte pazzesche, ma c'era grande rispetto, anche con Maldini c'erano sempre dei bei derby. Nel mio primo derby davanti ad 80mila persone ricordo un fallo da rigore su di me, di Baresi, che mi ha alzato di peso dicendomi 'Alzati'. Era Baresi. Era rigore. 

-Bastardi non ce l'hanno dato...

Secondo me se c'era il VAR sarebbe stato rigore. 

-Come vivi la popolarità? 

Con totale normalità. Ho grande rispetto per persone e tifosi, fanno grandi sacrifici per venire ad allenamenti, partite e a noi non cambia niente fermarci, porto rispetto alle persone. Ho avuto la fortuna di avere la possibilità di scendere in campo novanta minuti, ma finita la partita io sono uno di loro. 

-Come vivi l'Italia? 

Sono innamorato dell'Italia. Ormai sono italiano, i miei  tre figli sono nati a Milano. Hanno pianto quando l'Italia è rimasta fuori dai Mondiali a San Siro contro la Svezia. Ormai per noi siamo italiani. L'Italia mi ha aperto le porte da sconosciuto, mi ha dato tutto, ho grande rispetto per questo Paese e quando vado altrove mi rendo conto di quanto mi manca. I miei nonni erano della provincia di Pordenone. 

-Quanto hai goduto alla vittoria del Mondiale dell'Argentina? 

Sono stato tutto il mese in Qatar con la mia famiglia e sembrava che tutta l'Argentina fosse lì. Da quando sono arrivato sentivo la voglia dei tifosi per la vittoria del Mondiale, attesa tanti anni. E Messi che poteva così alzare il trofeo. Poi ho avuto la fortuna di entrare in campo e ringraziarlo per tutti gli argentini per la gioia che ci ha dato. Torno sempre lì a Natale, in pantaloncini corti perché lì è estate. E torniamo quando finiscono le scuole. Ora lavoro per loro come Uber, prendo uno e porto l'altro. 

-La Fondazione Pupi? 

Nata nel 2001, in un momento difficile per l'Argentina, sentivamo il dovere con Paula di fare qualcosa per il nostro Paese, per le persone che vedevamo in difficoltà e abbiamo trovato modo di aiutare tanti ragazzi a trovare la strada giusta. Aiutiamo oggi più di mille bimbi. 

-Con chi avrei voluto giocare? 

Forse Maradona. Perché lui smetteva quando io iniziavo in Nazionale. Per tutto quello che ha rappresentato avrei voluto giocare con lui. 

-Chi vorresti all'Inter? 

Messi. 


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