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editoriale
Domenica scorsa è andato in scena a San Siro quello che per la stampa italiana è il Derby della vita, o lo Scontro fra i titani del pallone, mentre per la stampa estera è una semplice partita di un campionato di medio livello. Questione di percezioni. Stiamo ovviamente parlando di Milan-Juventus.Premetto che parlo di questo argomento come divertissement, o meglio come terapia psichica, che mi distragga dalle tremende vicende nerazzurre.Al minuto 70 della suddetta disfida, Sulley Muntari, il centrocampista più forte del mondo da un mese, chiude in rete da pochi passi, Buffon tenta il salvataggio ma non riesce a impedire la rete del milanista (vi scoccia se lo chiamo così anziché ex interista?). Qualche ora dopo arrivano le dichiarazioni di Gianluigi Buffon: «Non ho visto, ma anche se mi fossi accorto del gol non avrei detto nulla». Apriti cielo, si scatena il dibattito, reazioni indignate, assensi e plausi al portiere, insomma solito bailamme e teatrino italiota.Non entro in merito al giudizio circa le cose dette da Buffon benché in cuor mio le osteggi fieramente, la sincerità in questo caso esula dal suo significato originario e si tramuta in un sordido alibi.Ma una cosa me la chiedo: perché stupirsi? E di cosa soprattutto? Forse ci aspettavamo Buffon dissertare sul sommo valore morale citando Spinoza? Oppure rifarsi ad Aristotele e al suo pensiero sull’Etica nicomachea? Le sue dichiarazioni sono nientemeno che il drammatico riflesso di tutto ciò che vediamo giorno per giorno nel nostro Paese. Nella media di un Paese furbetto e che “se la crede”, dove se inganni il prossimo sei un idolo e se dici la verità diventi eroe forse per un giorno, ma non andrai mai da nessuna parte nella vita e vieni guardato di soppiatto con occhi compassionevoli. Un Paese dove il calcio diventa la cartina di tornasole fedele della faziosità che obnubila e soffoca i pensieri e le coscienze individuali. Basti pensare che lo stesso gesto viene giudicato in modo diametralmente opposto a seconda del vessillo calcistico di chi lo esegue.I calciatori sono burattini su un palcoscenico grottesco, dove ogni atto diventa lecito nonché terreno di discussioni settimanali, banali quanto sterili. Scarpate tra allenatori, sputi, testate, bestemmie dopo i gol (non sono credente, ma mi sono sempre chiesto: perché?), gesti da osteria, proteste sistematiche dopo ogni fallo, simulazioni. È normale? No, eppure ne siamo assuefatti tanto da non farci più caso, non solo, a volte li interpretiamo persino come gesta eroiche degne di sacri altari. Nel nostro Paese beffare l’autorità è un vanto, che vale più di una mostrina sul petto. Buffon, grandissimo portiere di pallone ed eroe calcistico, è un semplice attoruncolo del grande circo, un italiano medio che da spettatore probabilmente si accanirebbe, sciarpa al collo, contro le stesse cose da lui dette. Come italiani meravigliosamente medi sono coloro che subito hanno sentito l’impellente necessità di parlare al vulgo (grazie, ndr) e difendere Buffon. Tipo Lippi e Guidolin, che hanno apprezzato “la sua sincerità”, perché in fondo “l’avrebbero fatto tutti”. Fantastico. La frase tipica dell’italiano medio, quello che vomita insulti sugli evasori, ma ha la tata senza contratto e paga l’idraulico in nero facendogli l’occhiolino.Il portiere è l’eroe sportivo medio del medesimo Paese in cui l’omertà è un valore, dove denunciare il male rappresenta una velleità ideologica senza costrutto nonché un danno inutile. Da portiere della Nazionale gli si chiede di essere un esempio, discorso pertinente se solo lui avesse la percezione del peso che il suo ruolo riveste. Ma siamo sicuri che lo sappia? Io credo di no. I calciatori si sentono star, fanno pubblicità alle merendine, sventolano i loro amorazzi, vanno in discoteca, twittano. Lontanissimi dalla sensibilità percettiva autocosciente di essere spunto di osservazione per milioni di persone di ogni età.La realtà del calcio italiano è che purtroppo l’unico fairplay che esiste, ahinoi, è quello finanziario ed è stato introdotto da un francese. Figuriamoci poi cosa possa significare essere arbitro in uno scenario simile. Rappresentante dell’autorità (da beffare, dileggiare e schernire se possibile) e inserito in un contesto patinato dove il ruolo ricoperto è davvero marginale, per usare un paragone cinematografico sei come Bombolo, che c’è sempre ma piglia solo ceffoni dal Monnezza (i calciatori). Anche i direttori di gara provano ad atteggiarsi, anelando ad assurgere al ruolo di primedonne, ma sono condannati al ruolo di eterne comparse in un film di Vanzina. Medi comprimari al servizio di un ambiente medio con protagonisti medi in un Paese medio.Per la cronaca, vi ha scritto un giornalista scarso che si augura di non diventare mai medio.
Twitter @Lorinc74
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