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Caro Presidente,
ci sono stati frangenti nei quali avrei voluto scriverle milioni di lettere. Per condividere l'amarezza che si respirava sugli spalti. Per allontanare i cattivi pensieri. Per sentirmi dire che un giorno tutto questo sarebbe finito. Ogni maledetta domenica la stessa stupida speranza di poter assistere ad un film diverso, uccisa dalla sensazione che sui sogni nerazzurri non avrebbe mai smesso di piovere. E invece un bel giorno la pioggia finì. Ci sorprese quel raggio di sole improvviso. Ci sorprese, ma in fondo era una vita che lo stavamo aspettando. Ne conoscevamo le sfumature più intime senza mai averlo visto prima. I giornali e le intercettazioni ci svelarono il resto. Cinque anni fa erano tutti d'accordo su chi fossero i carnefici e chi le vittime. Ora non lo sono più. E non perché siano emerse novità sconcertanti che hanno ribaltato le prospettive. Quelle prospettive sono state modellate da un lungo e sfiancante lavoro che ha scavato subdolo nelle coscienze.
All'inizio quelle insinuazioni ci facevano sorridere. Semplici gossip fuori luogo. Nulla di più. Ma con il trascorrere del tempo le insinuazioni non accennavano ad estinguersi. Prendevano forza e giorno dopo giorno guadagnavano sostenitori sempre più convinti. Non potevamo immaginarci a cosa si sarebbe arrivati. Sottovalutavamo i nostri nemici. Il 1. luglio capimmo finalmente di che cosa erano capaci. E maledirci per il nostro silenzio fu quasi una reazione istintiva. Piena di colpevole rabbia. Abbiamo ascoltato le parole di Palazzi e ancora oggi non le abbiamo comprese. Non riusciamo ad accettare che il sorriso da buono irrimediabile di Giacinto possa essere stato scambiato per qualcosa di malizioso e sleale. Non lo accettiamo e non possiamo esimerci dal difenderlo con tutti i mezzi in nostro possesso. La sensazione che il documento di Palazzi abbia leso la reputazione di Giacinto e dell'Inter, perché lui era il nostro Presidente non lo dimentichiamo, è forte e ci tormenta da quel giorno. Un documento che sancisce l'archiviazione per prescrizione, ma che di fatto consegna alla memoria dei posteri una sentenza priva di contraddittorio. Perche' non rinunciate alla prescrizione, hanno avuto il coraggio di chiederci. Dopo gli insulti, la provocazione. Facile farlo con chi non c'e' più. Facile per chi non conosce la vergogna. Facile se non si conosce la legge. Ma per chi si intende di materia normativa è evidente come questa operazione sia macchiata da un illecito disciplinare. Se i fatti sono prescritti, e questi lo erano gia' un anno fa, non si deve indagare. Sterili insinuazioni lanciate nel vuoto. Non toccare quello scudetto era il minimo che potessero fare. Il danno grosso, quello che non viene via neanche se gratti come un forsennato, era gia' stato fatto. Comportamenti analoghi, di questo stiamo parlando. Stiamo dicendo che la persona che non si dava pace perché aveva intuito che il sistema era marcio e che si augurava, come ce lo auguravamo noi, di avere un trattamento equo è considerata alla stregua di quella gente lì. Quella gente lì da anni sbraita nonostante l'evidente colpevolezza. Quella gente lì si guarda bene dal rinunciare alla prescrizione. Quella gente lì e' riuscita nel suo intento. Ora ci credono tutti. L'hanno ripetuto cosi tante volte che ogni tanto anche noi ce lo siamo chiesti. Se fosse solo un incubo o qualcosa di reale.
Quella gigantografia srotolata ci ha ricordato in che cosa abbiamo creduto e in che cosa continueremo a credere. Ma fissarla in silenzio non sarà sufficiente. Il Cipe avrebbe lottato e lo avrebbe fatto senza pensarci. Semplicemente perché era giusto farlo. Non esistono altri motivi per combattere questa guerra, Presidente. Non per uno scudetto, non per quella gente lì, non per un sacco di altre cose. Lo faccia semplicemente per lui. Vada fino in fondo, faccia ricorso, alzi la voce. Non si fermi fino a quando da quella gigantografia non sarà sparito l'ultimo schizzo di fango. Lo faccia perché noi non siamo come quella gente lì. Non lo siamo e non lo saremo mai.
Con sincero affetto e immutata stima,
Sabine
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