editoriale

Mousi lunghi

Sabine Bertagna

Non so da cosa dipenda. Me lo sarò chiesto una vagonata di volte, sempre con risposte alquanto poco soddisfacenti. Cioè, per quale motivo un vincente come Josè Mourinho riesce a suscitare un odio trasversale così condiviso? E’ un fenomeno...

Non so da cosa dipenda. Me lo sarò chiesto una vagonata di volte, sempre con risposte alquanto poco soddisfacenti. Cioè, per quale motivo un vincente come Josè Mourinho riesce a suscitare un odio trasversale così condiviso? E’ un fenomeno curioso. Fino all’anno scorso vi avrei detto che la ragione risiedeva nel fatto che nelle stagioni nerazzurre fosse riuscito a discutere e ad infiammarsi anche con i pali della porta di San Siro (a ragione, ovviamente) e avesse affrontato accesi faccia a faccia con tutti, dal giornalista che segue le partite solo attraverso il tubo catodico a sconosciuti dirigenti in cerca di un po’ di sana pubblicità. Ma adesso che è all’estero, che ha svestito (apparentemente) la casacca nerazzurra e che se la prende caso mai con i colleghi giornalisti spagnoli, perché tutta questa acredine?

Il mondo, come ci fa presente Repubblica, invoca a gran voce una nuova generazione di anti-Mou da crescere opportunamente come piccoli Pep. L’identikit? Eccolo: Aziendalisti ma con personalità, coraggiosi ma pragmatici, mediatici ma non schiavi del proprio ego, quello che quando inizia a gonfiarsi è capace di trasformare eroi globali in macchiette da sala stampa. Via l'arroganza e la paranoia, si può anche lottare con ambizione senza rinunciare a una soffio di leggerezza interiore. E il mondo torna banalmente a dividersi nel bene (Pep) e nel male (Mou). Incredibile quanto queste certezze risuonino rassicuranti per qualcuno! Ma mentre a Mou si è sempre detto che vinceva perché aveva i campioni e che con quella squadra lì anche uno come Del Neri (ma per favore!) ti avrebbe portato in cascina il triplete, a Pep nessuno si è mai arrischiato a dire che vincere con una squadra di marziani potesse non essere merito suo. Perché, vogliamo forse mettere in discussione che questo Barca, fatto appunto di marziani che giocano a memoria, non lo può allenare chiunque? Aspettiamo che Pep vinca la sua prima coppa dei Campioni con il Porto e poi ne riparliamo.

Villas-Boas è arcistufo di sentirsi catalogare come Second Best e ci mancherebbe anche che non lo fosse. Ecco che allora quella dedica a Pep suona più come una ribellione adolescenziale che un qualsiasi quindicenne prima o poi progetta e attua contro suo padre. Normali segni di crescita, tutto qui. Ma noi invece dovremmo credere che la giusta visione del mondo prevede che si ripugni un vincente come Mourinho, sempre lì a tuonare verità scomode, e ci si abbracci e ci si sbaciucchi tutti come in una comune pensando a quanto profondamente giuste siano le vittorie del Guardiola. Boh, se lo dite voi.

Nella mia ideale concezione di giornalismo tra la rigida obiettività (impraticabile, siamo d’accordo) e la faziosità da curva c’è di mezzo una cosa che si chiama equilibrio o buon senso. Quindi penso, nella mia ridicola ingenuità, che un giornalista debba inseguire uno come Villas-Boas per chiedergli la sua idea di calcio. Non per ossessionarlo con Mou. JM è un’ossessione, la vera sfida è farlo passare per uno qualunque. Tra Pep e Mou c’è un Villas-Boas pronto a schierarsi dalla parte giusta. Tra la stampa italiana intera e ciò che realmente accade, invece, l’irrinunciabile bisogno di fare il tifo per qualcuno. O per qualcosa che con il calcio (o la cosiddetta leggerezza interiore) ha davvero poco da spartire…