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Volevo vedere da vicino. Vedere le facce, le espressioni. Ascoltare le voci, sentire la consistenza delle strette di mano, cogliere la sincerità di un sorriso o di una smorfia di fatica, respirare l’aria di Pinzolo senza pregiudizi, da cronista tifoso e quindi condizionato solo dalla passione per dei colori che sanno di buono, di antico, di universale, di onesto, di solidale. La mia Inter non può essersi sciolta sotto il peso di una montagna maledetta di errori, sfortuna, cali di tensione, infortuni, crisi personali e di gruppo. Arrivo e vedo come un anno fa questo popolo nerazzurro, multiforme, familiare, orgoglioso di indossare maglie vecchie e nuove, con i nomi di sempre, e qualche novità: quanti Zanetti attempati e Milito con la pancetta, ma anche splendide tifose con la maglia nuova di zecca che ci accompagnerà verso le nuove avventure. E poi i bimbi con il nome di Kovacic e di Icardi sulle spalle, quasi ambasciatori di un futuro imminente, che già ci appartiene. Un popolo educato, pulito, che non butta per terra la carta del gelato, che si mette in fila per un’ora abbondante, centinaia di metri in pineta, per entrare allo stadio e cuocersi sotto il sole in attesa dell’allenamento, senza brontolare, chiacchierando a mezza voce, fra ricordi del passato, qualche imprecazione, e molte speranze per una ripresa che sta per materializzarsi.
Grazie all’affettuosa ospitalità degli amici di Inter Channel e all’approvazione del gran cerimoniere Ivan Ramiro Cordoba, riesco a entrare sul campo, all’ombra del gazebo dove incontro, gentilissima e sorridente come un anno fa, Bedi Moratti. La vedo serena, convinta, partecipe. Parla con un’amica, che ha accompagnato un ragazzo anche lui in sedia a rotelle come me. Intuisco che conosce bene il mister Mazzarri, se interpreto bene i pochi accenni, deve essere stato suo allievo prima di un trauma che lo ha portato all’immobilità. Non vado oltre nella mia curiosità. Mi concentro sul campo, e vedo innanzitutto questa erba rasata alla perfezione e mi confermano che è una richiesta di Mazzarri, non vuole correre rischi, e pretende una superficie liscia e regolare come un biliardo, per provare schemi, forzare la velocità dei passaggi, costringere i giocatori a dare il meglio di sé. I nostri giocano veloci, di prima, corrono anche senza palla, si smarcano, si fiondano lungo le diagonali in attesa del lancio, reclamano a gran voce il passaggio, si cimentano in numeri arditi (strepitoso in rovesciata un gol di Guarin, lo dovesse fare a San Siro vien giù lo stadio). Sudano, cercano il refrigerio di un sorso d’acqua ma si rituffano subito nella mischia, scanditi dai richiami continui di Mazzarri che non smette un attimo di stimolare, di dettare la posizione, di spingere con la voce tutti al massimo sacrificio.
E questo è il primo dato concreto: sono tutti magri come chiodi, mai visti così tirati a lucido. Balle spaziali quelle di un Cambiasso sovrappeso. A fine allenamento scambio con lui due chiacchiere come fossimo vecchi amici. Parla sereno, attento. Spera che questa forma ci accompagni fino a maggio 2014, non si sbilancia, ma c’è, con quel carisma da leader che non gli puoi, non gli devi togliere, perché lo ha conquistato sul campo, in tanti anni. Tocca agli altri, ai nuovi, ai giovani, dimostrare di valere, di meritare, di essere indispensabili. C’è aria buona, adrenalinica al punto giusto. Il sorriso di Nagatomo, che fa il suo inchino, due volte, con la mia compagna, e scherza dopo aver corso per un’ora a perdifiato. La simpatia disarmante di Jonathan, al quale ricordo il primo striscione, in tribuna arancio, che lo ha sostenuto nel momento difficile dei troppi errori e dei fischi impietosi del Meazza. E poi la stretta di mano con Mazzarri, robusta e con sguardo dritto. Scherza sulle ginocchia che gli scricchiolano mentre si piega accanto a me per una foto scattata da Cordoba. Il tempo di una battuta, di un incitamento da parte mia, si capisce che ha paura di promettere qualsiasi obiettivo, e per ora si concentra sul lavoro fisico e tattico. Mi sembra stia ottenendo quello che voleva, da una squadra che lo segue con un misto di timore, convinzione, speranza, rispetto, fiducia. Nessuno nomina Stramaccioni, come è logico. E’ come se di quel passato si volesse rapidamente archiviare l’assuefazione finale alle sconfitte, spesso immeritate, ma così numerose da togliere il fiato e l’entusiasmo.
La mia sensazione, tornando a casa soddisfatto e sazio di Inter, è che forse adesso, davvero, siamo definitivamente usciti dall’era del Triplete. Questa Inter sarà per la prima volta dal 2010 una cosa nuova, un cantiere vero in costruzione verso una identità positiva e vincente. Ho la sensazione che giocheremo un calcio essenziale, basato su difesa attenta e sbrigativa, ripartenze veloci, aggressive, molto più larghe del passato, sperando di avere davanti dei realizzatori spietati ed efficaci. Resta sullo sfondo il dispiacere per le modalità disastrose nelle quali si è consumata l’agonia di Stramaccioni. Ma non possiamo farci niente, e Mazzarri al momento merita di giocarsi le sue carte, a modo suo. Il tempo restituirà la dimensione giusta alle cose. Andiamo avanti.
Franco Bomprezzi
@Bomprezzi
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