editoriale

Se non ora, quando?

Sabine Bertagna

E’ questo il fondo? Ha questo sapore? Di lacrime ricacciate a forza per non mostrare la nudità della propria debolezza? Gli occhi sbarrati, sofferenti, ieri sera hanno cercato di allontanarsi da ciò che vedevano su un campo improvvisamente...

E' questo il fondo? Ha questo sapore? Di lacrime ricacciate a forza per non mostrare la nudità della propria debolezza? Gli occhi sbarrati, sofferenti, ieri sera hanno cercato di allontanarsi da ciò che vedevano su un campo improvvisamente troppo ostile. Straniero. Cioè, quella non poteva essere la loro squadra. Doveva esserci stato uno sbaglio. Un fuori-programma. Che partita danno stasera al Meazza? Se lo saranno chiesto i tifosi? In una serata resa più mite da una temperatura meno rigida tutto profumava di beffa. Il Bologna che non vinceva al Meazza dal lontano '99, Di Vaio che non era mai riuscito a segnare all'Inter, tutte queste statistiche buttate lì apposta per smentire l'impossibile. L'ineluttabile. Quegli stessi occhi hanno invano tentato di sprofondare in un sonno ristoratore, le palpebre serrate a cacciare via le immagini della disfatta, l'ennesima. Nulla da fare. Il film scorre a nastro, gli incubi sono lì in agguato, non si chiude occhio.

Il risveglio è di quelli amari. Perché il bisogno quasi fisico di trovare una spiegazione a quanto accaduto non trova catarsi. Non che non ci siano spiegazioni. Forse ce ne sono troppe e in questa confusione analitica non si capisce quale sia l'elemento che ha avuto più peso. I giocatori nerazzurri non sono scesi in campo con pesi da dieci chili l'uno, ma con una quintalata di insicurezze ben distribuite tra gambe e spalle. Possiamo parlare di moduli, dell'aver giocato con una punta (siamo più che mai sterili), di sfortuna (se fosse entrato il colpo di testa di Maicon), della difficoltà di trovare un posto a Sneijder, dei senatori e dei giovani (applausi a Faraoni e Poli, bravi crescete così). Di cosa vogliamo parlare? Ieri sera la sensazione più palpabile era che non ci fosse una squadra in campo, ma  timorose sentinelle di guardia a reparti sempre più scoperti. Facilmente calpestabili da un nemico ordinato e determinato. Una battaglia persa quasi subito. Tra il non è facile e il è tutto così difficile dovrebbe esserci qualcosa di mezzo, o sbaglio? Un purgatorio nel quale lottare per non precipitare dritti all'inferno. Per meritarsi il paradiso. Forse. Un giorno, chissà.

La contestazione, nell'aria da un po', si lascia attendere. Straripa furente solo dopo il terzo maledetto gol ad opera di un ex (qualcuno prova un sadico piacere in queste grette statistiche). Straripa rabbiosa ed impotente. Perché nell'ansia di voler cancellare questa e altre partite dalla propria memoria si vorrebbe cambiare tutto. Dirigenza, allenatore, giocatori. L'animo è offeso, gli anni di straripanti vittorie non aiutano, anzi, se possibile, alimentano l'astio per una situazione inaccettabile. Fa male perdere. Non c'è nulla di educativo nella sofferenza. Se non la voglia di riscossa. La reazione. La cattiveria trasformata in desiderio di cambiare le cose. Fa male questa apparente passività, se di questo si tratta. Ranieri combatte per mantenere una parvenza di ordine e normalità quando racconta che non ne va dritta una. Non sappiamo quello che succede nello spogliatoio. E come ha ribadito ieri con fermezza, non lo sapremo mai. E allora la gente nerazzurra si divide e cerca di alimentare il proprio amore per la squadra in modi del tutto differenti, chi attraverso una contestazione che vorrebbe scuotere i giocatori e ricordare loro che indossare quella maglia vuol dire onore, chi aumentando l'affetto per una squadra in difficoltà, difendendola a spada tratta in ogni dove. Sempre di amore si tratta e non esiste giudice (se non quello supremo) che possa definire quale di queste due sfumaturei sia più giusta o vera dell'altra. In entrambi i casi si tratta di sopravvivenza. Faticosa ed estenuante. Imprescindibile.

La serata si chiude sulle note di un coro che mette tutti (o quasi) d'accordo. José Mourinho, lalalalalalalala. José Mourinho. Ancora lui. Lontano ma vicino. Sbaglia chi ci ha letto la nostalgia nella sua massima espressione. Chi lo fa pecca di leggerezza e ama le letture scontate. Siamo stati consumati ferocemente dalla nostalgia per il portoghese fin dal fischio del Bernabeu, che ci consegnava alla storia come eroi. In quel preciso momento lui già ci mancava. Ma non siamo stupidi. Sappiamo quando un'era è finita e questa lo è da ormai troppo tempo. José rappresenta il punto più alto e allo stesso tempo quello più basso della nostra storia nerazzurra. Il punto dal quale, dopo aver vinto tutto, abbiamo iniziato a rovinare verso il suolo. L'olimpo dal quale un giorno ce ne siamo dovuti andare. La nostra presenza si era fatta blasfema. Lo invoca il popolo nerazzurro sugli spalti che vibrano per lo sconforto. Lo invoca sapendo che l'unico modo per trovare spiegazioni a ciò che siamo diventati oggi è scavare in quell'addio. Lo invoca in maniera ironica perché non ha il coraggio di chiedere la cosa che più lo opprime. E' questo il fondo? Quello che abbiamo toccato? O manca ancora molto?

Twitter @SBertagna