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Ho conosciuto per la prima volta Gianfelice in occasione di un'intervista. A Giraudo era stata appena annunciata una pena di tre anni per frode sportiva e associazione a delinquere (dicembre 2009). Volevo sapere che cosa ne pensava di quello che sembrava un punto cruciale nella faticosa ricerca di giustizia all'interno del girone infernale di Calciopoli. Gianfelice mi diede una risposta pacata, che cozzava con il mio entusiasmo. Con il tempo, purtroppo, avrei capito che cosa aveva voluto dirmi con la frase non è ancora finita. Ribaltamenti di fronte, processi mediatici, congegni surreali e letali della nostra vita moderna. Per tornare a respirare un'aria diversa bisogna calarsi nella lettura di questo libro-diario dal titolo "Se no che gente saremmo" (Longanesi editore). Un viaggio che fissa i ricordi e attacca nell'album di Gianfelice figurine molto personali (quelle che solo un figlio ha avuto il piacere di possedere) vicino a quelle più o meno conosciute, conservate dalla gente che non ha mai smesso di ricordarlo. Ne esce un ritratto di Giacinto a noi in parte già noto. Ma l'emozione che trapela dalle parole di un figlio alle prese con il ricordo del padre gli regala una luce inedita. La figurina che scegliamo è in fondo quella che meglio lo rappresenta nel tempo e nella memoria. "Con quel sorriso misurato, gentile e profondissimo” nel quale la gente dell'Inter si è sempre riconosciuta. Giacinto era così.
Nelle prime pagine del tuo libro racconti della spaccata di Schnellinger, in Italia-Germania, di come il difensore si fosse trovato in maniera assolutamente casuale nel posto giusto al momento giusto. Segnò, spiazzando ogni tattica. Così è il calcio, ma anche la vita. Resistere vuol dire anche questo?
Vuol dire che c'è sempre un residuo di imprevedibilità nelle situazioni date per perse. Quel gol rimette in gioco la Germania, ma fa anche di più. Trasforma la partita in una partita epica e riapre tutto. C'è la capacità di un gesto tecnico di farci pensare ad altre cose. Alla vita, per esempio. E ha il potere di farti comprendere quello che succede altrove. Tutto ciò non deve diventare una prigione. Ma può essere una possibilità. Per me lo è stato.
Secondo te esistono ancora giocatori alla Giacinto Facchetti o stiamo parlando di un'era ormai al tramonto?
La nostalgia è una tentazione sulla quale si rischia di indugiare. E' bello abbandonarsi ai ricordi, ma non sarebbe tutto credibile. Conoscevo le gesta di papà relativamente, visto che aveva smesso di giocare quando avevo 4 anni. E' stata una scoperta un po' letteraria. Il rapporto tra padre e figlio arricchisce il racconto. Ciò che rende tutto più difficile è l'eccesso di informazione, che spesso riesce a soffocare la poesia. Come se un giocatore che compie un gesto tecnico fuori dal comune pensasse a quello che sta facendo. Oggi il calcio si viviseziona con analisi e schemi. E la sostanza rimane in ombra.
“Se no che gente saremmo” è una frase che tuo padre ha pronunciato e che racchiude molte sfumature...
C'è un aneddoto che vede protagonisti mio padre e Arpino, autore di “Azzurro tenebra”. In occasione dei mondiali del '74 mio padre strappò la promessa ad Arpino che se il figlio che aspettava fosse stato maschio, lo scrittore gli avrebbe fatto da padrino al battesimo. Fu così e in occasione dell'evento Arpino venne, ma non aveva capito che avrebbe dovuto svolgere quel ruolo. Mia madre allora disse a mio padre che non si era spiegato bene e lui le rispose che quando si dice una cosa, è quella. Se no che gente saremmo. Lella Costa l'ha interpretata, nel booktrailer dedicato all'uscita del libro, come una sorta di esame di coscienza da praticare ogni giorno. Una frase da portarsi dietro.
Che effetto ti fa vedere che tuo padre è amato dalle generazioni più antiche come da quelle più recenti, in maniera così trasversale?
E' il potere del linguaggio universale e dell'opera umana. Lo spazio di espressione è amplificato dalla platea, lo stadio. I ricordi più personali si fissano a distanza di tempo attraverso occasioni, luoghi che associo a mio padre. Squadre contro le quali aveva giocato, città che richiamano momenti fondamentali. Come con la Roma, che è stata l'ultima partita che ha visto. Sono i fili della trama della vita. Il tempo passa, ma le cose rimangono.
Parli anche di Calciopoli e scrivi che la strada del processo sarebbe stata almeno un po' diversa se tuo padre avesse potuto parlare. Come avrebbe affrontato Giacinto, secondo te, tutto ciò che è successo negli ultimi anni?
Credo che anche per quanto riguarda le cose belle ci sono punti oltre ai quali non si riesce ad andare. In cuor mio penso di saperlo e l'ho scritto. Si è parlato di un suo coinvolgimento. Gli è stata appioppata un'accusa vestita da sentenza. In una situazione anomala dove non c'erano giudici e non ci si poteva difendere. Più ci penso e più mi convinco che il silenzio sia la cosa più appropriata.
Recentemente hai raccontato che tu e il figlio di Scirea avete trascorso insieme il 18 luglio, giorno della “ri”-assegnazione dello scudetto dei rancori all'Inter...
Le cose interessanti sono quelle che fanno vendere più copie, che creano più audience, che fanno baccano e finiscono in rissa. Io sono felice di aver avuto questa possibilità e di aver potuto condividere quel momento con Riccardo. Anche la canzone degli Stadio l'ho presa come un dono tra i tanti. Era già lì, ma non sempre sei pronto a capirlo. E' stato un bel momento.
Ricordiamo che il libro verrà presentato martedì 13 settembre (ore 18.30), presso lo spazio Oberdan di Milano.Un grazie e un in bocca al lupo per tutto a Gianfelice!
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