- Squadra
- Calciomercato
- Coppa Italia
- Video
- Social
- Redazione
in evidenza
Riccardo Agostinelli, l’avvocato che ha affiancato Goldman Sachs sotto il profilo legale nell’operazione di rifinanziamento del debito dell'Inter, ha raccontato alla rivista Undici quella che è la strategia di Erick Thohir: «Quella con Thohir è stata un’operazione pilota, verso una gestione scientifica: il nuovo debito non è tarato sulla capacità di assorbimento – probabilmente infinita – del patrimonio di un singolo, ma è un debito “project finance style” che rovescia totalmente l’approccio ed è matematicamente, assolutamente ed esclusivamente calcolato sulle capacità generativa dei flussi di cassa». Ora a parlare è lo squalo del banking abituato a nuotare nel mare dei pesci grossi: stressa ogni avverbio, punta i polpastrelli delle dita sul tavolo della sala riunioni. Ci si arriva «ingegnerizzando il processo, prima disorganizzato, ricostruendo il debito sul medio-lungo termine (5 anni, ndr), con un sistema autoliquidante». In concreto: si costituisce una good company controllata al 100% dal club, in cui si conferiscono la proprietà intellettuale (il brand) e i diritti che derivano dal suo sfruttamento, quelli televisivi e i contratti di sponsorship. Un tesoretto a parte, isolato dai rischi del club, non aggredibile dai creditori e separato dagli stipendi dei calciatori. La si finanzia, il rimborso del nuovo investimento è coperto dalle entrate che arrivano dai contratti di sponsorship e media, e questi soldi vengono messi dalla good company a disposizione del club per ripulire l’indebitamento esistente. «L’ effetto è che il club si trova libero dai debiti nei confronti dei terzi; appena entra il nuovo finanziamento, il pregresso viene ripulito. Scompare».
Un gioco di prestigio. Al termine del quale il tifoso, confuso, si chiede: «Ok, ma questo vuol dire meno soldi per acquistare i campioni?». Se le squadre devono puntare quanto meno a un pareggio di bilancio, l’epoca dell’incetta di fuoriclasse è tramontata? «Non necessariamente», è convinto Agostinelli. Si tratta semmai di «spendere in modo più organizzato». Puntando, nel lungo periodo, anche su altre possibili entrate. Siamo alla seconda fase: il cambio di palcoscenico. Gli stadi del futuro. «Lo ha già fatto la Juve, lo sta facendo la Roma, e così le squadre in crisi estere: creare strutture dedicate dove si va con tutta la famiglia – i figli, i nonni – e si trascorre la giornata. Come in America: vanno lì e comprano l’hamburger, le patatine, i popcorn, le magliette». Meno stadio-arena dei gladiatori, più centro commerciale: «Il merchandising da noi ha ancora un valore marginale bassissimo nel calcolo dei profitti, ma in altri mercati ha un peso enorme. Gli investitori stranieri guardano alla presenza di infrastrutture che soddisfino questo trend». Una nuova fonte di guadagni con cui, in combinato disposto con il ricorso al project finance, «una società può essere sostenibile, grandi campioni compresi», scommette.
© RIPRODUZIONE RISERVATA