Il momento dell’Inter potrebbe essere riassunto da una celebre battuta di Nereo Rocco: «Va tutto bene, ma purtroppo bisogna anche giocare le partite». I nerazzurri ripartono domani pomeriggio da San Siro e dal Parma (che aveva vinto all’andata: 2-0, 1° novembre, Mazzarri in panchina), in quella che dovrebbe essere la prima di dieci finali. Soltanto un finale di campionato, che segni una netta discontinuità rispetto ai risultati fin qui ottenuti, potrebbe riportare la squadra in orbita Europa League, dopoché è stato buttato al vento tutto quanto poteva essere sprecato, a cominciare dal pareggio in casa con il Cesena. Il rendimento della squadra ha svuotato San Siro; la media nel primo trimestre 2015 è scesa a 33.669 spettatori (-27,2% rispetto all’anno scorso), ma non c’è da sorprendersi perché la Milano interista è da sempre abituata bene (anche troppo). E poi la recente iniziativa «Milionidinomi» garantisce un grande avvenire. L’uscita dall’Europa (e prima dalla Coppa Italia), il fatto di giocare una sola partita a settimana (a parte il turno di mercoledì 29 aprile), la possibilità di allenarsi con continuità sono tutti elementi che potrebbero dare un altro passo all’Inter, ma l’impresa appare molto difficile. Il calendario prevede sei partite in casa (Parma, Milan, Roma, Chievo, Juventus e Empoli) e quattro trasferte (Verona, Udinese, Lazio e Genoa), ma è complicato e non è chiaro se l’Inter si esprima meglio in casa o fuori, dove appare più sciolta come si è visto a Napoli o con la Samp.
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Non arrivare in Europa League, sia pure attraverso i preliminari in piena estate, sarebbe più un danno di immagine che economico, visto che si potrebbero recuperare i soldi attraverso una lunga tournée in Asia. Ne risentirebbe, però, lo sviluppo del brand (cioé la popolarità dell’Inter, per dirla in italiano, lingua ormai sconosciuta nella sede di corso Vittorio Emanuele) e questo rallenterebbe la corsa ad aumentare i ricavi. In parallelo con la conclusione della stagione, verrà trovato l’accordo con gli organi Uefa sulla questione del fair play finanziario. A metà aprile, tornerà a Milano Erick Thohir, che ha capito quanto sia delicata la presidenza di una società come l’Inter e quanto sia costoso esserne l’azionista di maggioranza. In questi mesi ha molto lavorato per cambiare la società, assumendo in quantità industriale manager, collaboratori, consulenti. Adesso si tratta di far ripartire il progetto-squadra. Il punto fermo è rappresentato dal nome di Mancini: per quanto ha fatto in carriera, per le conoscenze approfondite dell’ambiente nerazzurro, per le sue idee, persino troppo coraggiose, rispetto alla rosa attuale e al tipo di calcio che la squadra ha espresso nell’ultimo triennio. Per una società che di grande, al momento, ha soltanto la propensione ai buoni propositi, Mancini rappresenta la calamita per portare a Milano giocatori che sappiano cambiare il corso degli eventi, perché è venuto il momento di rifondare, con interventi radicali e tagli anche dolorosi, anche se si dovrà procedere con una specie di autofinanziamento.
Almeno due giocatori di valore internazionale partiranno (nella rosa dei partenti ci sono Handanovic, Kovacic, Hernanes, Guarin), per fare cassa; molti ne arriveranno, a cominciare da Murillo (che è già nerazzurro). Si parla molto di Yaya Touré, che deve essere davvero legatissimo al tecnico che lo ha portato a vincere la Premier con il City nel 2012, se è pronto a mutilarsi l’ingaggio. I contatti sono febbrili e aprile («il più crudele dei mesi», Eliott) è il tempo per promuovere movimenti così importanti, come insegna anche la storia nerazzurra. Il 5 aprile 1997, Moratti, tornando da Firenze dopo un sofferto 0-0, aveva deciso di dare l’assalto a Ronaldo e sei anni fa di questi tempi aveva già programmato con Mourinho la campagna acquisti che avrebbe portato a vincere cinque trofei nel 2010.
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