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Deki Stankovic, intervistato da Il Messaggero Veneto, ha parlato del suo rapporto con l'Italia, ripercorrendo le tappe tra Lazio, Inter e Udinese:
Insomma, si può dire che il nostro paese è anche la casa di Stankovic?
«Assolutamente. Questo è il mio diciasettesimo anno di serie A, se calcolate che sono andato via da Belgrado a 19 anni e che si dice che i primi 2-3 anni della vita non si ricordano mai, capirete che ormai i miei ricordi sono legati profondamente all’Italia».
Un’esperienza lunghissima cominciata alla Lazio: le stagioni vissute a Roma occupano una parte importante nella carriera?
«Sono stato là sei anni. Non sono pochi. Se devo ricordare una persona legata a quel periodo vi dico Sven Goran Eriksson. Lui è il massimo per un giovane che deve cambiare abitudini, vita, anche gioco per affermarsi in un calcio difficile come quello italiano. Ma là nel 2000 ho vissuto anche l’annata forse più difficile della mia carriera: ero il quarto extracomunitario, a Belgrado c’erano i bombardamenti, c’era la guerra».
Ha rischiato di fallire come calciatore d’alto livello?
«Non ero tranquillo e questo si rifletteva sul campo. Per fortuna sono riuscito a ricordare gli insegnamenti dei miei allenatori qui alla Stella Rossa. Nelle giovanili. Quando il mio rendimento calava un po’ mi dicevano: non mollare, non puoi mollare, un vero calciatore non lo fa mai. E sono le stesse cose che adesso mi sento di dire ai tanti ragazzi che ci sono all’Udinese quando li vedo in difficoltà. Io sono all’Udinese per insegnare a non mollare».
Dopo la Lazio, da giocatore già maturo, è finito a Milano, per vincere un bel po’ di trofei con l’Inter, dove ha ritrovato Mancini...
«Quando lo incontrerò di nuovo, seduto su quella panchina, lo ringrazierò per tutto quello che mi ha insegnato e che mia ha fatto vincere. Per il nuovo corso del club penso sia la scelta giusta».
È il nome che si sente di mettere in evidenza pensando alla sua Inter?
«Per quella svolta devo ringraziare tutta la famiglia Moratti. Mi convinsero parlandomi di sport, non di soldi. E la passione è ancora quella cosa che ti aiuta a fare la differenza nel calcio. Sono stati anni di successi quelli di Milano. Successi che hanno portato a fare di quella città la mia nuova casa. La mia famiglia è ancora là. Mi manca in certi giorni. Ma poi penso che i ragazzi hanno gli amici e la scuola, là. E non voglio toccare i loro equilibri. Anche se Udine sta diventando giorno dopo giorno una realtà che mi sta facendo pensare: ma sì, tra un po’ tutti potremo vivere in Friuli».
Il nuovo cerchio, quello dello Stankovic allenatore, tocca l’esperienza interista, l'anno e mezzo vissuto con Stramaccioni. Come è andata?
«In modo fulmineo. Io ero a casa: ho acceso la tv e la Tg sport ho sentito del nuovo contratto firmato da Andrea. Mi sono detto: benissimo, ha fatto la scelta giusta. L’Udinese è una società che ha programmi, che ha tradizione, che investe sui giovani e ti dà il tempo per lavorare. la sera ecco la telefonata. Come stai? Come va? Cosa pensi? Ho tagliato subito corto, sono fatto così: Andrea, cosa vuoi chiedermi? Mi ha chiesto di diventare il suo vice. Ho accettato subito».
Neppure un attimo di pentimento, magari postumo?
«No, adesso pensieri soltanto i miei compiti di allenatore. Si lavora duro, ore e ore, perché Stramaccioni, se non ve ne siete accorti ve lo dico io, è un perfezionista. E per me è il modo giusto per calarmi in questa nuova realtà. Quella del tecnico. Quella dell’Udinese. Ecco perché non penso neppure alle voci che parlano di una mia candidatura per la panchina della Serbia».
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