Addio fair play finanziario, nato nel 2009 e applicato dal 2011 per fare da scudo istituzionale all’indebitamento dei club. In sei anni s’è invece trasformato nella più grande sperequazione tra ricchi e poveri della storia del calcio continentale. Guai a dirlo all’Uefa però, che ha fatto del progetto la propria bandiera “etica” per combattere i presidenti spendaccioni. L’Uefa ci ha creduto quando nel mirino finivano Besiktas e Trabzonspor, poi nella rete sono capitati i colossi Psg e Manchester City, da noi Inter e Roma. E qualcosa è cambiato, proprio mentre all’orizzonte si affacciava l’obiettivo delle elezioni Fifa 2016 a cui Platini arriva da favorito. In fondo il Fair Play Finanziario era nato quasi esclusivamente per assecondare i malumori dei giganti d’Europa: il Bayern di Beckenbauer e il Real di Florentino, di fronte all’invasione di rubli e petrodollari nel football continentale, pretesero norme in grado di regolamentare gli investimenti. Dopo sette esclusioni dalle coppe europee e la riduzione dell’80% sul ritardo nei pagamenti degli stipendi, il progetto ha cominciato a franare, a trasformarsi in una lunga mano tesa verso le nuove big. Oggi, sotto la pressione del Tribunal de premiere istance di Bruxelles, è l’Uefa stessa a mettere mano al Financial Fair Play. Il 29 giugno a Praga l’Esecutivo ne ha ridisegnato i confini: maglie più larghe, spazi di manovra più comodi per raggiungere il pareggio. Soprattutto uno “scivolo” per le nuove proprietà, che grazie a un accordo volontario potranno “dribblare” le sanzioni.
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