Settant'anni dopo, resta l'eleganza. «La finezza superiore», la chiama Amedeo Amadei. Quella di Giuseppe Meazza, incrociato in campo quando era «agli ultimi sprazzi di carriera». Fine anni '30-anni '40, prima e dopo la guerra: il primo, centravanti della Roma, il 'fornarettò, è all'apice; il secondo, 'el Peppin', vicino al ritiro. Tra i due ci sono undici anni di differenza. Giocare contro una leggenda, a ripensarci adesso, a un anno dai 90, ad Amadei fa venire in mente «la limpidezza» dello stile. «Chiedi chi era Meazza», lo chiedi a chi l'ha visto, a qualche giorno dal centenario della nascita del primo mito del calcio italiano, che cade il 23 agosto. Per chi non è ancora davvero vecchio è il nome dello stadio di Milano, molto meno usato di San Siro. Gli venne dedicato dalla sua città dopo la morte, nell'agosto del '79, a due giorni dal 69/o compleanno. Immagini sgranate, a velocità innaturale, più grigi che bianco e nero. Palloni scuri e pesanti. Quel centravanti che dribbla lo stopper, resta in piedi, punta il portiere con la coppola, scarta anche lui e insacca. «Gol a invito», li chiamarono. Li inventò Meazza. «Superava gli avversari con una certa signorilità, aveva un gioco limpido e chiaro», ricorda Amadei al telefono dalla sua Frascati, ai Castelli Romani. Faccia da attore, labbra carnose, capelli impomatati e sguardo duro, pronto al sorriso che stendeva le donne, Meazza è il primo calciatore star. Guadagni clamorosi, flirt con le attrici, gli anni 30 vissuti a perdifiato. «Meazza che fa gol al tempo di fox-trot», è pure nelle canzoni. Meazza nerazzurro, l'Inter che il duce volle Ambrosiana. «Ora facciamo giocare anche i Balilla», i bambini, dice un compagno quando vede nello spogliatoio quel ragazzo minorenne. È il 1927: titolare subito, titolare per quasi 20 anni. Il primo scudetto nel 1930, quando nasce la serie A, un altro nel '38. Talento folgorante, gol a valanga, cannoniere e funambolo. «Con il pallone faceva quello che voleva - ancora Amadei -. Tecnicamente era perfetto, non gli mancava niente». Meazza Maradona degli anni '30? «Beh, Maradona è stato un gran giocatore, però». L'uomo non regge il confronto con il calciatore, al contrario del 'Balillà, secondo colui che fu idolo dello stadio Testaccio. E che andò all'Inter l'anno dopo l'addio di Meazza, nel '48. «Avremmo potuto giocare insieme - ammette -, ma quelli come lui per intelligenza e tecnica erano superiori». Amadei ha segnato 174 gol in serie A. Meazza si è spinto fino a 216, quasi tutti nell'Inter, più Milan, Juventus, Varese e Atalanta, la carriera già stravolta dalla Seconda Guerra Mondiale. Internazionale e Nazionale, dove forse fu ancora più grande. Trentatrè gol in 53 partite: dovette nascere Gigi Riva per superarlo. Campione del mondo nel '34 e nel '38, oro olimpico nel '36. Simbolo di una squadra dominatrice, per anni capitano, il saluto fascista in tribuna prima di ricevere la coppa Rimet. Maglie azzurre, maglie nere, a Parigi fischi dei democratici francesi costretti a diventare applausi quando l'Italia dilaga. Il rigore segnato tenendo con una mano l'elastico rotto dei calzoncini, contro il Brasile in semifinale nel '38. Il Brasile che aveva già il biglietto per Parigi. Solo a Ricardo Zamora non fece mai gol quando contava: 'Peppin' infilò il portiere-monumento all'Arena di Milano, in amichevole. Nei quarti del Mondiale del '34, rete di Meazza alla Spagna, ma Zamora non c'era. Più che scelta tecnica, un mistero. Eppure ci sono partite che superano quelle della Rimet. A Highbury, stadio dell'Arsenal di Londra, 14 novembre '34. L'Italia campione del mondo resta subito in dieci per l'infortunio di Luisito Monti (non c'erano sostituzioni) e ne prende tre in 12 minuti dagli autoproclamati maestri inglesi, che ai Mondiali non vanno per spocchia. Ma la Nazionale dà battaglia, una battaglia epica: Meazza ne fa due, all'ultimo minuto centra la traversa. Perdono, ma diventano 'i Leoni di Highbury'. Alla radio l'Italia ascolta rapita Nicolò Carosio. Meazza ha 24 anni. Ne aveva ancora 19, l'11 maggio 1930: finale di Coppa Internazionale, Ungheria-Italia finisce 0-5, i primi tre gol sono suoi. La scuola danubiana è schiantata dopo tante batoste. Nasce il mito. E quel giorno nasce anche il calcio italiano.
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