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Milan, Scaroni: “Vinto con stile e professionalità. Calhanoglu? Zero dubbi. Lo stadio…”

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Il presidente del Milan, Paolo Scaroni, ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera. Tra i temi affrontati, anche la questione stadio

Matteo Pifferi

Il presidente del Milan, Paolo Scaroni, ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera. Tra i temi affrontati, anche la questione stadio.

Presidente Paolo Scaroni anche i fondi di investimento hanno un cuore?

«Sicuramente hanno un cuore sportivo!».

Con la Coppa al piano di sotto, la disposizione d’animo è quella migliore per parlare di come siamo arrivati fin qui e di dove il Milan e, forse, il calcio italiano possono andare. Partiamo dalla fine. Non siamo abituati a vedere i Singer così coinvolti.

«È stata un’esperienza, direi excited, per loro, Gordon era più abituato, Paul non aveva mai visto il Milan. Sono arrivati dalla Florida con grande fiducia, erano molto ottimisti di vincere lo scudetto, noi italiani eravamo più scaramantici... Io continuavo a dire che volevo arrivare quarto, come ho detto tutto l’anno, anche domenica che non era più possibile...».

A mente più fredda secondo lei qual è stato il segreto del Milan?

«Io direi che il Milan di oggi ha un suo stile e il suo stile è caratterizzato dall’avere professionisti in ogni ruolo. Elliott è un campione mondiale degli investimenti: non ci ha mai fatto mancare supporto finanziario (il Milan non è indebitato), ha fissato limiti di spesa, senza mai voler decidere come dovessimo investire. Gazidis è un amministratore delegato che ha girato il mondo del calcio dopo una laurea in Legge ad Oxford. Paolo Maldini è stato un grande professionista tutta la vita. E poi Stefano Pioli, bravissimo. Un mondo di professionalità, ognuna con il suo ruolo e la sua libertà d’azione, nel rispetto di quelli degli altri. Questo è un modello manageriale che funziona in tutte le aziende: andava trasportato nel calcio».

È stato soprattutto lo scudetto della sostenibilità, un concetto innovativo.

«Vero. Quest’anno lo chiuderemo con la gestione ordinaria che genera cassa, per dire».

Un punto importante per la sostenibilità è stato il no a certi rinnovi, Calhanoglu e Donnarumma per primi: all’esterno hanno generato molto dibattito, dentro la società com’è andata? Tutti d’accordo?

«Non ho visto il minimo tentennamento su entrambi. La sostenibilità è una rotta da cui non si transige, ed è quella che mi faceva dire che volevo arrivare quarto, il minimo per mantenerla».

Per essere sostenibili bisogna anche aumentare i ricavi. E qui entra in gioco il tema stadio. Cresce la convinzione che alla fine lo farete da soli a Sesto San Giovanni...

«Questa non è la nostra intenzione. Io tengo aperte entrambe le opzioni, San Siro e Sesto San Giovanni. Poi c’è la variabile che riguarda le proprietà: Elliott ha intrapreso un percorso in cui sta sondando opportunità di vendita, che comunque richiederà del tempo, almeno tre mesi. Poi deciderà il nuovo proprietario, RedBird o chi sarà».

Avete vinto in Italia, ma il gap con l’Europa di tutto il calcio italiano sembra ancora enorme. Suggerimenti per colmarlo?

«Nel nostro bilancio è fondamentale la vendita dei diritti tv. Nel mondo l’Italia perde terreno: la Premier incassa 2,1 miliardi l’anno, la Liga 897 milioni. La serie A ne prende 139 da Infront per Europa, Africa, Asia e Sud America, e 57 da Cbs per gli Usa: totale fanno 196 milioni. Il calcio è uno sport, ma anche uno show, per entrare nel mercato dell’intrattenimento devo attrezzarmi perché nel mondo guardino le mie partite».

Per vendere il proprio prodotto serve anche l’organizzazione giusta. La Lega di A, con tutte le sue divisioni, non sembra molto attrezzata.

«È un mestiere difficile per super professionisti. Tra Pakistan, India, Indonesia e Cina ci sono tre miliardi di persone: per conquistarli devo vincere la concorrenza con gli altri sport e all’interno del calcio con le altre Leghe».

Come si fa?

«Tutte le componenti devono concorrere a migliorare lo show. Gli stadi: devono essere pieni, moderni, ben illuminati, come in Premier League. Il campionato deve essere più appassionante possibile, quindi a 18 o 16 squadre. Gli orari delle partite di cartello devono essere pensati per Shanghai o New York. E le partite devono essere meno noiose. Solo a me la Champions sembra un altro calcio?».

No, ma l’obiettivo è ambizioso.

«Da noi ci sono troppe pause, troppi giocatori che perdono tempo, troppi fischi dell’arbitro, 26,8 falli fischiati a partita contro i 20,4 della Premier, per dire. Una partita da noi ha un tempo effettivo inferiore ai 50’. Anche arbitri e giocatori devono capire che fanno parte dello show. È una questione esistenziale per noi perché i soldi sono la benzina del calcio, ma non è un problema solo di soldi. Così non riusciamo a trattenere i nostri giocatori migliori. Vorranno sempre andare in Premier».

Abbiamo parlato di tutti ma non di lei: cosa ha dato al Milan e cosa ha imparato da questa esperienza nel calcio?

«Adesso se vado in un salotto e parlo di calcio li affascino tutti, scherzo... Ho imparato molte cose nuove. Non mi prendo meriti al Milan, ho dato il mio contributo quando ho fatto l’ad e quando Ivan è stato via. Ho dedicato tanto tempo alla Lega calcio, almeno 10 ore alla settimana: ho imparato molto, e concluso poco. Non è facile con questa governance».

Lei è stato prudente ma l’arrivo del nuovo proprietario RedBird sembra certo: cosa cambierà? Proseguirà nel processo di trasformazione del club in media company?

«Io credo che chiunque compri il Milan compra un gioiello, una macchina che funziona bene, con un pubblico formidabile. Poi se chi compra aggiunge le sue competenze, e RedBird ne ha, ben venga».

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