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Bedin, ci racconti perché questa giornata non la dimenticherà.
«Vedo spesso a tavola i miei vecchi compagni, non sarà certo una novità questa, era successo da pochissimo tra l’altro, ma è stato comunque un pranzo piacevolissimo. Ci hanno invitato alcuni tifosi, ce n’erano anche alcuni famosi come Elio ed Enrico Bertolino, ma tutti per racconti di famiglia o per ricordi diretti parlavano delle nostre vittorie, come se fossero accadute ieri. Ne abbiamo approfittato per festeggiare il compleanno di Sandro (venerdì scorso era il giorno, ndr), come da tradizione, ma per me, per lui, per tutti la vera emozione è arrivata dopo, nel rientrare insieme nella sede per la festa preparata per noi dal club. È Beppe Marotta che ci tiene a non disperdere la storia dell’Inter. Del resto, nelle grandi squadre si fa così...»
Spieghi meglio.
«Prendete il Real Madrid, la squadra più grande, ricca, potente. È un marchio globale, ma non mette mai da parte le proprie leggende spagnole: ci tengono tantissimo, stanno sempre in prima fila e sono esempi per i tanti Mbappé che arrivano al Bernabeu. Mi è capitato di parlare di questo con Emilio Butragueño che era molto legato al nostro fratello Suarez: ai nostri appuntamenti al ristorante Luisito c’è sempre stato e adesso ci manca».
Cosa vi ha emozionato di più?
«Vedere i filmati nella sala dei trofei in cui ci siamo rivisti tutti insieme in bianco e nero: la notte magica della vittoria con il Benfica con i 100mila di San Siro fino a bordo campo, gli scudetti della Grande Inter, il Mago Herrera. Poter rivedere da vicino e toccare le Coppe dei Campioni vinte fa uno strano effetto, ti riporta indietro alla gioventù, ma nello stesso modo ti fa sentire davvero leggenda. In realtà, una sola è davvero mia, quella del 1964-65 in cui ero in campo e il mio alleato si chiamava... pioggia: il campo ci aiutò a frenare la pantera Eusebio. In quella della stagione prima ero ancora un ragazzo di bottega, a differenza di Aristide e Sandro che col Real hanno scritto la storia».
Con Bordon in porta ha giocato da veterano quella del 1971-72.
«Sì, Ivano è arrivato dopo: con lui abbiamo ricordato propria la sconfitta contro l’Ajax di Cruijff che ci è stato superiore. Anche io non avrei dovuto fare fallo nell’azione del secondo gol del grande Johan, ma questa è la vita e il calcio. La memoria la fanno anche le delusioni, anche se è difficile farsele passare».
Le brucia di più l’altra finale persa col Celtic Glasgow?
«Eh sì, nel 1966-67 era il canto del cigno della Grande Inter, la grande illusione. Ci abbiamo scherzato, forse potevamo fare meglio tutti, marcare con più attenzione alla Guarnieri. Dovreste vederlo, Aristide: ha 86 anni e la tempra che tanti difensori di oggi sconoscono. Ma lui segnava pure, ad esempio ci ha ricordato di un suo gol segnato a San Siro con la Nazionale contro l’Urss nel novembre ‘66 dopo la delusione mondiale della Corea del Nord. In porta Jascin, assist di Mazzola. Avevano le braghe nere, con l’azzurro della maglia sembravano l’Inter!».
A proposito di Mazzola, è sempre stato lui la vostra stella?
«E lo è ancora, non a caso a pranzo si festeggia sempre il suo compleanno.... In realtà, la nostra squadra era piena di stelle, ma Sandro è stato ed è speciale. Poi resta uno di poche parole rispetto a noi da sempre un po’ più espansivi, ma la sua classe non ha tempo. Basti pensare che a pranzo tutti dicevano: «Mio padre non faceva altro che parlare di lei...». Ma mi lasci concludere con una riflessione su questa bellissima giornata».
Prego.
«È bello sapere che nella mia squadra ci sia ancora uno zoccolo duro italiano che sente l’appartenenza come la sentiamo noi e potrà tramandarlo. I Bedin, Mazzola, Guarneri, Bordon di ieri oggi sono Barella, Bastoni, Dimarco, Darmian. Quella sala dei trofei la stanno riempiendo abbastanza anche loro».
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