Intervistato da La Gazzetta dello Sport, l'ex giocatore Amedeo Carboni che ora lavora per la Molcaworld, azienda valenciana che, tra le tante altre cose, si è specializzata nella ristrutturazione degli stadi ha parlato proprio degli impianti sportivi:


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Carboni: “San Siro? Capisco Inter e Milan e meno il Comune. Va cambiato rapporto concessione”
«Torniamo all’inizio del secolo. Finisco di giocare nel 2006, ho preso il patentino da allenatore, ho fatto il direttore sportivo, poi Fran Carrasco, presidente di Molcaworld, mi chiede di dargli una mano col Valencia. In attesa di costruire il Nou Mestalla (quasi vent’anni dopo i lavori sono ancora fermi, ndr) perché non dare una bella ripulita al vecchio? Io contatto il club, accettano e si parte. Le colonne sono sempre quelle, vecchiotte, però se le ridipingi, cambi i seggiolini, migliori le aree comuni, rivesti lo stadio con dei teloni che puoi cambiare alla fine con un investimento contenuto hai un impianto che sembra nuovo. E che è costato un quinto, o meno, rispetto alla costruzione ex novo di uno stadio da 55.000 posti».
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Effettivamente, bella idea.
«Eccome. Ogni due domeniche a Mestalla veniva una squadra nuova, e tutti erano impressionati dal restyling dello stadio. E chiedevano. Per la nostra società era il primo progetto di questo tipo, si occupavano di rebranding aziendale, e da allora siamo esplosi. In 15 anni abbiamo fatto 19 stadi, tre centri tecnici compreso quello del Real Madrid a Valdebebas, due palazzetti del basket e un paio di circuiti automobilistici».
Solo in Spagna?
«No, abbiamo rifatto anche l’Azteca a Città del Messico e il Mirsool Park a Riad, lo stadio dell’Al Nassr di Cristiano Ronaldo dove si è appena disputata la Supercoppa italiana».
Ecco, e l’Italia?
«Ci stiamo provando, e infatti ora sono qui. Però è dura. Abbiamo due problemi: una burocrazia bestiale che rallenta tutto a livelli impossibili e vincoli architettonici non sempre comprensibili e condivisibili. Fortunatamente il ministro Andrea Abodi ha capito il problema e ha voglia di risolverlo».
Altri crucci?
«Il tifo. L’Italia è l’unico paese tra le grandi nazioni calcistiche europee ad avere gabbie, reti, vetri, protezioni. Una cosa dell’altro mondo. Tutti lì a riempirsi la bocca con l’atmosfera degli stadi inglesi, ma lì le reti le hanno tolte da decenni. Allo stadio devono andare i tifosi che tifano, non quelli che spaccano.
Lei sa bene che Florentino Perez e Joan Laporta per anni hanno vissuto sotto scorta perché avevano buttato fuori gli Ultras dal Bernabeu e dal Camp Nou. Ora sono tutti contenti. In Italia va cambiata la cultura, e qualcuno deve cominciare».
Che idea si è fatto del caso San Siro?
«Premesso che non conosco i dettagli, io capisco la posizione di Milan ed Inter e molto meno quella del Comune di Milano. Se i due club dovessero andar via cosa farà con quell’impianto il Comune? Una decina di concerti, e poi? Se volesse buttarlo giù dovrebbe spendere una cinquantina di milioni di euro solo per smaltirlo. Dovrebbero trovare un accordo con le due squadre. Oggi pagano circa 3 milioni di euro all’anno, dovrebbero darglielo gratis, e per 50, 60, 70 anni, costringendo però le due società ad investire 50 milioni a testa per rifarlo completamente e a lasciarglielo 10-15 giorni all’anno per i concerti. Non si può chiedere a un club di investire 30-40 milioni per uno stadio lasciandoglielo per poche stagioni e in più con l’affitto da pagare. Va cambiato completamente il rapporto di concessione: in Spagna i comuni che hanno stadi affittati ai club sono felicissimi quando questi fanno i lavori. Ma le condizioni sono diverse per tempi e denaro. E un’altra cosa».
Prego.
«Lo stadio ormai è parte della città, socialmente, culturalmente e turisticamente. Non è più un posto dove vai solo a vedere la partita la domenica. È aperto sette giorni su sette, c’è chi ci fa una clinica, chi un centro commerciale, chi un cinema. Oltre a bar e ristoranti. E i bus turistici di Madrid, Barcellona, Valencia, Siviglia passano tutti per lo stadio. Deve essere un punto centrale nella vita cittadina, un monumento, un punto di aggregazione».
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