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E lei?
«Avevo una chitarra, ma non riuscivo proprio a scrivere una canzone su un amore finito. Era un sentimento così forte, mi pareva che le parole non bastassero. Le notti non passavano mai, non dormivo in camerata ma al bar dei sergenti, anche se ero solo aviere semplice… Fu Orlandi a convincermi».
Chi?
«Un commilitone emiliano, noto perché dedito a sedute autosessuali pubbliche, insomma una vera bestia. Eppure si commosse per la mia storia, e mi disse una frase che ancora ricordo: “Tu devi fare questa canzone, perché questa canzone sarà per sempre”».
L’ha scritta in caserma?
«No, a casa, durante una licenza, su un tavolinetto rotondo, con le farfalle sotto il vetro. Cominciando dalla fine: il patto con Milano. Perché io, figlio di napoletani, amo Milano. In Luci a San Siro, Milano è una persona viva, cui propongo uno scambio».
Lo stadio?
«Ma no! È quello che pensano tutti. Ma le luci di San Siro non sono quelle dello stadio, dove andavo a vedere la Grande Inter. Sono le luci che scorgevamo dalla montagnola di San Siro, quella innalzata con le rovine delle case bombardate. Andavamo là a nasconderci e a fare l’amore. E poi Settimo Milanese, Sesto San Giovanni, il laghetto di Redecesio vicino all’Idroscalo… strade bellissime, vicende fantastiche».
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