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parola al tifoso
Certe sere starsene, in un angolo, in silenzio, in un Bar Sport qualunque, mentre la mia squadra viene fatta a pezzi, è una tortura. Però, per farmi innamorare dell’Inter, mi hanno regalato una foto di Giacinto Facchetti a 4 anni. Volevano insegnarmi che lo stile viene prima di tutto. Prima della cattiveria che solo un uomo ferito può sputare. Prima delle fantonie che i più devono inventarsi per rigirare la frittata e per dare un senso alla loro esistenza. L’argomento del giorno, ridotto ai minimi termini, faceva più o meno così: “Trovate le nuove intercettazioni sull’Inter: adesso ci ridanno due scudetti e loro dovranno pagare tutti i danni che abbiamo subito in questi anni. Moggi sarà riabilitato e la nostra serie B sarà cancellata dagli albi”. Ho appreso con fatica che nei loro bicchieri c’era solo acqua. Credevo avessero bevuto vodka o chissà chè. E invece mi sbagliavo. Erano proprio lucidi, lucidi e arrabbiati. Per che cosa poi. “Un’intercettazione scoperta dall’avvocato dell’ex dg della Juve (e chi se no) nella quale il designatore Bergamo invita Facchetti a cena e lui gli chiede dove parcheggiare” e una in cui “si chiede a Moratti quale arbitro vuole” e lui risponde: “Fate quello che vi pare”. Wow! Eppure io avevo sentito parlare e letto di arbitri chiusi negli spogliatoi con le chiavi lanciate chissà dove, di ammonizioni studiate a tavolino, di rolex omaggio, di voti in pagella ritoccati o taroccati che dir si voglia. E di queste cose pare che l’Inter non ne sappia granché e ci mancherebbe visti i risultati. In questi casi decido sempre di stare zitta, potrei degenerare. Ho dovuto subire per 17 anni (e con me milioni di tifosi interisti che per fortuna non mi hanno lasciata sola), non uno di meno, il ritornello del “non vincete mai” e tutti gli inni possibili sulla “squadra più perdente d’Italia”. Eravamo un fenomeno da baraccone, ci hanno studiato nei manuali di psicologia alla voce: “Fenomenologia dei perdenti”. Una mattina qualunque di maggio mi sono alzata e ho scoperto che nessuno di quei manuali aveva scritto la cosa più banale di questo mondo: perdevamo perché c’era chi vinceva imbrogliando (e se no perché qualcuno è già stato condannato a tre anni?). Non era colpa del gatto nero (o bianco-nero) che incontravo sotto casa e non era colpa dei colori sbagliati e non era colpa della luna storta e non era colpa delle stelle. Tutte le volte che li sento inneggiare ai loro titoli vinti sul campo e al nostro scudetto di cartone, rabbrividisco. Ce ne fosse uno, uno solo, che si senta preso in giro, ammaliato, ridicolizzato. E lì, l’immagine dei tuoi lineamenti delicati e i tuoi modi gentili mi viene in soccorso e mi fa alzare la testa al cielo. Giacinto, accidenti quanto mi manchi.
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