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L'agenda, che non vorrebbe guardare, gli impedirà di raccogliere l’invito dell’Inter, la sua squadra del cuore, per il super concerto del 19 maggio, in cui verrà celebrata la seconda stella:
«Sarò in Brasile. Per fortuna ci sono appena quattro ore di fuso orario, col cuore sarò lì».
Festeggerà con le stesse emozioni di quando era ragazzo?
«Con l’età si diventa più calmi, ma la fede resta pur sempre fede».
Nel 1994 a Sanremo canta «Il mare calmo della sera», che inizia con «Non so cosa sia la fedeltà».
«Ma quel testo non l’ho scritto io, altrimenti mia moglie (Veronica, 23anni più giovane) si arrabbia —mette le mani avanti, ridendo — e comunque il concetto non si sarebbe riferito alla fede calcistica. La fedeltà alla squadra l’ho sempre avuta e ce l’avrò per tutta la vita».
Dalla prima stella è passata una vita, era il 1966.
«Ho iniziato a tifare Inter proprio l'anno precedente, nel collegio di Reggio Emilia dove i miei genitori mi avevano iscritto per apprendere la lettura braille. Con i miei compagni ascoltavo "Tutto il calcio minuto per minuto" sulle radio a transistor. Era molto romantico, ci accontentavamo di poco ed eravamo felici».
Qualcuno sostiene che questa Inter sia più forte di quella di Herrera.
«Non si possono fare questi paragoni, si tratta di un calcio totalmente diverso. A quei tempi il pallone pesava 480 grammi. Oggi è uno sport atletico, prima dipendeva tutto dal piede, dal tocco».
Cosa le piace di più di questa Inter?
«Che i risultati sono stati frutto di un gioco di squadra, altrimenti il campionato non sarebbe stato vinto con tutti questi punti di vantaggio. Poi ciascuno ha i suoi beniamini, ma non sarebbe giusto ricordare solo chi segna di più. Bisognerebbe cominciare dalle parate di un bravo portiere come Sommer, aiutato da una grande difesa».
Dove c'è il suo amico Bastoni.
«Mio figlio Matteo lo ha conosciuto in Sardegna, dove erano entrambi in vacanza. Lo ha portato a casa, abbiamo parlato un po'. È un ragazzo sicuro di sé, molto determinato».
Tre figli: Amos, Matteo e Virginia. Tutti interisti?
«Chi vuole mangiare alla mia tavola deve esserlo — sorride — nel 2010 abbiamo festeggiato la Champions a Viareggio per tutta la notte».
A proposito di derby in famiglia, anche lei viveva il suo.
«Mio padre era un gran tifoso della Fiorentina, in casa fioccavano gli sfottò. Da quando non c'è più, è diventata la mia seconda squadra».
San Siro quest'anno è sempre stato pieno.
«Non ho una grandissima passione per lo stadio. Ognuno di noi nasce con le esperienze che fa e io ancora oggi in tribuna uso la radiolina. Dal vivo ormai c'è troppo frastuono. L’ultima volta che ho assistito a Inter-Juve mi sono messo i tappi alle orecchie».
Anche lei giocava?
«Senza alcuna pretesa di diventare un campione. Ma ho giocato tanto, in qualunque ruolo. Oggi però mi avrebbero espulso subito, entravo direttamente sulle gambe dell'avversario...».
Ama il calcio, ma una pallonata la rese completamente cieco.
«Mi colpì proprio sull'occhio destro, l'unico dal quale riuscivo ancora a scorgere la luce e i colori. Ma l’episodio anticipò solamente un percorso già segnato. Non ha cambiato niente, ho sempre avuto fiducia nel destino, in Dio e nelle sfide a cui mi ha messo davanti. Le ho affrontate con estremo ottimismo, senza mai correre il rischio di cadere nella depressione. Ho ringraziato ogni giorno l’immenso dono della vita, che ritengo essere un’esperienza straordinaria. Non bisogna perderne neanche un attimo».
A Zurigo la sua voce ha commosso Roger Federer. Farà piangere anche San Siro?
«Chissà, c'è sempre una prima volta. Quando canto ci metto il cuore, do il meglio di me. Spero di regalare qualche sana emozione. Quando mi riesce posso dire “Mission complete”».
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