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Intervistato da La Gazzetta dello Sport, l'allenatore dell'Inter Primavera fresco Campione d'Italia Cristian Chivu ha parlato del traguardo raggiunto in questa stagione:
«Non sono sorpreso dal risultato, semplicemente perché conoscevo alla perfezione questo gruppo di ragazzi straordinari: sapevo il loro valore e quello che potevano fare. E alla fine abbiamo fatto una grande impresa, siamo felici».
Giusto, lei questo gruppo ha cominciato a plasmarlo nell’Under 17.
«Sono due anni che lavoriamo tutti insieme, tra alti e bassi, tra pause forzate dal Covid e altre difficoltà. Però alla lunga siamo riusciti a portare a casa quello che è l’obiettivo di chiunque indossi la maglia dell’Inter. Perché quando alleni o giochi per l’Inter, devi sempre puntare al massimo e quindi alla vittoria».
Ma lei se lo aspettava di vincere al primo anno di Primavera?
«Quando scegli di fare qualcosa di diverso nella vita, abbracci la sfida con tutto te stesso e per prima cosa devi pensare di uscire dalla comfort-zone per rimetterti in discussione. Poi il cielo non ha limiti, quindi perché dobbiamo porceli noi? Ho cominciato ad allenare cercando per prima cosa di capire se questo sarebbe potuto diventare il mio nuovo mestiere: la vita di campo è bellissima, ma fare l’allenatore è un’altra cosa rispetto a fare il calciatore».
E che allenatore è Chivu?
«Io credo che un allenatore di settore giovanile debba curare tantissimo la crescita individuale di ogni calciatore. Solo crescendo singolarmente si può crescere poi di squadra. E per crescita non penso solo all’aspetto fisico o tecnico, ma anche mentale, saper andare oltre i propri limiti, imporsi personalmente ogni volta un obiettivo da raggiungere, credere sempre in quello che si fa».
Un lavoro anche da psicologo, insomma. Per questo non si è fatto problemi a lanciare giocatori anche sotto età per il campionato?
«Per me il calcio non ha carta d’identità: se uno è bravo e pronto, gioca. Un allenatore non può avere paura, mal che vada mi cacciano, ma devo seguire il percorso che ritengo più giusto. Poi capisco che per altri, anche tra i giovani, conta vincere e portare titoli in bacheca. Io per fortuna ho potuto lavorare con serenità, libero di prendere le mie scelte e sentendo costantemente la fiducia della società, che mi ha sempre incoraggiato a seguire le mie idee».
Com’è il suo approccio alla squadra? Ha un sistema di gioco di riferimento, un credo tattico imprescindibile?
«Ogni volta che comincio un percorso, il primo obiettivo è cercare di capire cosa possono fare i ragazzi e dove io posso migliorarli. Non bisogna mai metterli in difficoltà, un allenatore deve essere bravo ad adattarsi alle qualità di un gruppo per tirare fuori il meglio da tutti. Non si devono imporre le proprie idee, perché non sempre un gruppo ha le qualità per seguirle. Se ti adatti, ottieni di più dalla squadra: l’ho visto dalle mie esperienze da giocatore, valeva all’epoca e vale oggi. Se fai sentire il giocatore a suo agio, migliori la sua autostima e otterrai sempre di più».
In chiusura, a chi vuole dedicare questo primo scudetto?
«Lo sa che questa è la domanda che in assoluto mi mette più in difficoltà? (ride, ndr). Se dico la società passo per ruffiano, se dico la famiglia risulto scontato, anche perché loro sanno i sacrifici che ho fatto, mi hanno sempre supportato e sopportato a dire la verità. E allora sa che le dico: la dedica è per il mio staff. Abbiamo fatto davvero un lavoro straordinario».
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