Mauro Icardi nell'intervista a La Gazzetta dello Sport ha parlato anche della sua religiosità e della sua adolescenza vissuta nel barrio di Rosario:"Se non credessi, non me la sarei fatta disegnare sulla pelle. Vede? Questa è la Virgen del Rosario de San Nicolás e c’è anche in tutte le mie foto di quando ero bambino: al collo, legata con un laccio per le scarpe, portavo sempre una medaglietta con la sua immagine. Un regalo della nonna Tati prima che un tumore se la portasse via, e io avevo dormito nel letto con lei fino al giorno prima. In suo ricordo, con la mamma andavamo alla processione che si faceva ogni anno per la Vergine, ma ancora non sapevo bene perché: mi dicevano di farlo e lo facevo. Ho iniziato a capire con il catechismo stavo attento come a scuola e ho iniziato a sentire perché in tanti momenti Dio mi ha fatto sentire che c’è. Non vado spesso a messa, non prego tutti i giorni, ma quando lo faccio ho quasi sempre delle risposte e una volta, a Las Palmas, sono andato anche io in pellegrinaggio a piedi fino al Santuario di Santa Rita, anche se oggi non ricordo più cosa avevo chiesto. Invece ricordo ogni attimo di quando mi sono trovato davanti a Papa Francesco e gli ho chiesto di benedire il pancione di Wanda: è per questo che nostra figlia si chiama Francesca".
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Icardi: “Non prego tanto ma sento che Dio c’è. Tatuaggi? La mia vita sul mio corpo…”
"In tanti momenti Dio mi ha fatto sentire che c’è" e sull'adolescenza a Rosario "Non sono diventato un delinquente perché ci sono stati i miei genitori"
L'ADOLOSCENZA -"Quante volte l’ho sentito dire: “Se non fosse stato per il calcio, sarei diventato un delinquente”. Io non lo sono diventato perché ci sono stati i miei genitori, Juanchi che è il mio migliore amico e José Alberto Cordoba, il mio primo allenatore: un uomo umile e dal cuore enorme che però in campo mi chiedeva sempre un po’ di più, e se mi avesse trattato come tutti gli altri bambini chissà se sarei stato quello che sono. E poi perché sono sempre stato furbo e dunque ho frequentato quelli più grandi di me. Come Juanchi: classe ‘88, appunto. Certo, il calcio mi riempiva giornate che vuote non erano mai visto il mio iperattivismo, come da soprannome: cañito, più o meno razzo, o fuoco artificiale. Non avevamo molto altro, mica come i ragazzini di oggi che vivono con l’iphone e l’ipad e io lo so bene: Francesca ha un anno e mezzo e lo sa già accendere da sola. Ma non sarebbe stato il calcio a salvarmi se non avessi voluto vedere in faccia la possibile cattiva strada e non avessi capito da solo che non mi interessava prenderla. A Ceramica la mia villa nel barrio Alberdi a 7 anni conoscevo tutti, anche quelli che vendevano droga e per la droga ammazzavano, e tutti conoscevano me. Quando andavamo a scuola in bici la mamma preferiva fare il giro largo, e io “No dai, passiamo dentro la villa” e mi salutavano tutti, “Ehi Mauro”, anche i peggiori. Juanchi li vede, e vede pistole e droga, da trent’anni, ma continua ad alzarsi ogni mattina alle sei per andare a lavorare: alla fine i delinquenti quasi sempre sono quelli che vogliono esserlo, o quelli che non hanno voglia di lavorare".
I TATUAGGI -"Non so quanti ne ho, ma so che non ce n’è uno, neanche uno, che non mi piaccia moltissimo me li guardo spesso, sa? e che non abbia un significato ben preciso. E’ la mia vita sul mio corpo e ce l’ho disegnata io: i miei tatuaggi non solo li decido, ma li penso, li studio, li schizzo per far capire come lo voglio li correggo. Poi l’ago ce lo mette il mio amico Artur, è venuto a Milano anche sabato e mi ha “sistemato” un po’ quelli sul braccio. Me li ha fatti praticamente tutti lui a parte il primo (e pochi altri): quello me lo sono regalato a 14 anni in un negozio di Barcellona, il mio nome sul bicipite destro. L’ho fatto perché il mio nome mi piace, l’ha scelto nonna Tati e sono contento che abbia insistito perché io fossi Mauro, visto che quando ero nella pancia della mamma dovevo essere Lucas, avevano deciso così. Quando smetterò? Ogni tanto ci penso, anche perché adesso sento più dolore di una volta, ma poi c’è sempre un momento o un pensiero che mi colpisce, e allora vado avanti. E se vorranno farseli anche i miei figli? Liberi, ma non a 14 anni come me: il primo a 18, come minimo".
(Fonte: Andrea Elefante, La Gazzetta dello Sport 12/05/16)
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