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Protagonista della serata di Inter Channel, per il format "Memorabilia", è stato Sandro Mazzola, storico centrocampista della Grande Inter. Innumerevoli gli aneddoti svelati dall'ex campione nerazzurro, legato indissolubilmente alla sua Inter.
INIZI – "Quando mia mamma si sposò ci trasferimmo a Milano con mio padre. Giocavo all’oratorio San Lorenzo, con me c’era un certo Tony Renis. Era bravissimo a giocare ma faceva già commedie, e assiem a noi c’era pure Adriano Celentano. Lui era scarso, e infatti Tony lo mandava sempre in porta. Il Celenta si arrabbiava, litigavano ma Tony era troppo bravo e comandava la squadra. Io ero più piccolino di lui, ma gli piaceva giocare con me. Il campetto era piccolo e con tanti ostacoli, lì ho imparato a fare gli scambi con il muro. Celenta magari si era smarcato, voleva fare gol ma si arrabbiava perché non gli passavo mai la palla".
MASCOTTE – "I primi attimi di Inter lì ho trascorsi da mascotte. Ero tornato a vivere a Cassano d’Adda, il paese di mio papà. Un Natale ci venne a trovare Benito Lorenzi, detto Veleno, che ci portò due regali. Io andavo in campo a giocare con papà molto spesso, per cui mi conoscevano. Mi portò un paio di scarpe, numero 42, ma io ho il 40 ancora oggi. Insomma, lui voleva portarci a fare la mascotte. A quel tempo i giocatori non andavano in ritiro, si trovavano al ristorante in galleria Meravigli e poi si andava allo stadio. Andavamo vestiti da Inter, ci schieravamo a metà campo e poi seguivamo la gara a bordo campo. Entravamo anche negli spogliatoi all’intervallo. A fine gara c’era il premio per il miglior uomo partita, ci davano dei soldini in base al risultato della squadra".
VIA DALL’INTER – "La maggioranza non era convinta del mio fisico. Mi venivano a vedere pensando di vedere mio padre, ma io non potevo essere forte come mio papà. A 14 anni si firmava un cartellino a vita, poi la società ti prestava. L’Inter non mi credeva all’altezza e non mi fece firmare. A quel punto c’era un osservatore dell’Inter che mi disse: “Io sono convinto delle tue qualità, la mia società si chiama AC Milanese, vicino Corvetto. Vai lì, ti porto io”. E così ci andai, e dopo un gran campionato arrivammo in finale contro l’Inter. Arrivò una sconfitta, ma l’Inter poi volle riprendermi. E da lì sono rimasto per un po’ di tempo (ride)".
BASKET – "Sì, ero bravo, ad un certo punto anche indeciso. A scuola vincemmo un torneo che ci avrebbe portato a giocare contro i ragazzi della Simmenthal. Ero bravo, avevo una cosa innata nel fare gol e nel fare canestro. A fine partita mi chiesero di andare nella squadra del Simmenthal. Andai per qualche settimana, ma con due allenamenti all’Inter e due alla Simmenthal le cose si facevano dure. Mia madre mi disse di scegliere, e io - triste - spiegai al Simmenthal che il mio sport era l’altro"
PRIMI PASSI – "All’inizio fu molto dura, io non capivo cosa volesse dire l’8 che giocava da punta. Ero un centrocampista, mio papà pure ma vinse anche la classifica cannonieri giocando in quella posizione. Io volevo giocare così, ma Herrera mi voleva di fianco alla prima punta. Io non lo capivo, lui mi faceva allenare, mi testava e poi mi rimandava in Primavera perché non gli andavo bene. Poi l’ho capita eh. Lui mi diceva di svariare, di non stare fermo. E imparai molto bene come fare"
ESORDIO – "L’Inter aveva vinto lo Scudetto, ma fu penalizzata e il campionato andò alla Juve. Si è deciso così di far rigiocare Juventus-Inter a Torino, nonostante il campionato fosse già deciso. L’Inter, per sfregio nei confronti della federazione, mandò i ragazzini allenati da Meazza. Il problema è che io al mattino avevo 3 interrogazioni, in cui si sarebbe deciso se sarei stato promosso o rimandato. E il pomeriggio c’era la partita. Mia madre voleva che andassi solo a scuola, ma io dicevo: “Ma come mamma, è la Serie A!”. Andai dall’Inter per dire che non avrei potuto giocare. Italo Allodi mi rispose: “Quante sono queste interrogazioni?”. Mi organizzò tutto, le interrogazioni nelle prime tre ore, il taxi, un panino e via a giocare contro la Juve. Andò così, e dovetti tirare un rigore".
SIVORI – "Lui ad un certo punto non voleva giocarla quella partita. Boniperti insisteva, era arrabbiato per lo sfregio dell’Inter, voleva che Sivori giocasse bene. Morisi mi diceva: “Se fermo Sivori mi fanno sindaco al mio paese”. Sivori poi segnò 6 gol. E il Morisi non tornò in pullman, mi diceva: “Non posso più tornare al mio paese” (ride)".
GOL – “Su rigore? Dirla così… mettete un ragazzino che deve tirare il rigore al portiere della Juve e della Nazionale. All’inizio me la faccio addosso, vedo la porta piccola e il portiere grande. Allora penso: devo fargli credere che me lo sto facendo ancora più addosso. Mi metto a fissare il palo, lui mi guarda e un compagno gli dice dove buttarsi. Parto e lo spiazzo, per la gioia faccio un giro di campo anche se il gol non contava nulla”
PRIMA SQUADRA – “Il problema è stato convincermi che dovevo giocare di punta, dove mi voleva Herrera. Lui, prima di ogni allenamento, chiamava uno a uno i giocatori e faceva la confessione. “Tu sei svelto e rapido, hai dribbling, devi stare là”. Io dentro di me pensavo: “Ma va va...”. Alla fine però l’ho capito, aveva ragione lui. Mi misi a giocare lì e andò bene”
PETTIROSSI – “Un giornalista scrisse che se mi fossi chiamato Pettirossi e non Mazzola non mi avrebbe filato nessuno. MI fece molto male quell’articolo. Infatti poi volevo trovare quel giornalista ovunque andassi. Durante una partita di coppa, scendo dall’aereo e me lo trovo davanti: “Sono Pettirossi, brutto stronzo! Ciao”. E’ stato uno stimolo anche quello. Il fatto di aver avuto un papà così grande ha portato anche a questo. La prima trasferta con la nazionale giovanile mi toccò in Portogallo, in aereo. Io quell’aereo non me lo dimenticherò mai, guardavo fuori dal finestrino, mi giravo ovunque. Mio papà in quell’aereo era caduto, erano morti tutti, e io dovevo andare proprio in Portogallo. All’inizio non volevo andare, poi i dirigenti capirono tutto e mi diedero assistenza. Un giornalista si inventò un’intervista finta per aiutarmi”
PRIMA A TORINO – “La storia è un qualcosa di eccezionale. Prima di quella partita ad un certo punto si era liberi dal cartellino e io avrei potuto lasciare l’Inter. Il mio patrigno pensò che all’Inter per me la vita fosse dura, e andò a vedere se il Torino mi volesse. Il presidente del Torino non era più quello di quando c’era mio papà. Gli dicono che ero lì in attesa, ma non mi ricevono. Li abbiamo chiamati per dirgli che non volevamo soldi, ma solo chiedere se volessero che il figlio di Mazzola giocasse per loro. Comunque niente, avevamo capito che non gli interessava e ce ne siamo andati. Dopo una settimana , debutto nel’Inter e mi chiama il Torino. Ma a quel punto…”
PRIMA STAGIONE – “Dopo un anno non pensi ancora di poter fare il calciatore da grande. Pensi che devi ancora imparare, non sai se sei all’altezza, ma cominci ad avere più sicurezza nei tuoi mezzi, perché hai fatto bene e hai segnato dei gol. Cominci a guardati un po’ fuori”
DI STEFANO – “Era il mio idolo. Non avevamo la televisione a casa, se c’era un’italiana potevi seguire la partita, altrimenti avresti visto solo la finale. C’era un’osteria sotto casa, con una spuma ti vedevi la partita. In finale c’era sempre il Real Madrid. Andiamo a fare la finale a Vienna proprio contro il Real Madrid, mi ricorderò per tutta la vita che dagli spogliatoi passavi sotto le tribuna, e per terra c’era cemento con la sabbia. Da una parte spuntano quelli del Real e io m trovo davanti Di Stefano: era come aver incontrato Dio. Lo guardavo e non mi muovevo. Suarez, più esperto di me, mi disse: “Noi andiamo a fare la finale, tu resti a guardare Alfredo?”. Io all’inizio non giocavo la partita. Puskas a fine partita mi disse: “Ho giocato con tuo padre, tu sei degno, tieni la mia camiseta”. E’ la maglia più cara che ho conservato. Ho tenuto molte maglie, quella sera volevo quella di Di Stefano, ma lui mi venne incontro… Pensa te, un giocator famoso così che corre da un ragazzino a dargli la maglia. Oggi succederebbe?”
DOPPIETTA – “Sì questo sì, segnai due gol in quella finale. Di solito quando segnavo non esultavo più di tanto. Ma lì’ avevo segnato al Real Madrid, per me la partita era finita. Suarez mi richiama subito: “Oh, non festeggiare, che nel tempo in cui tu esalti questi ce ne hanno fatti 4”. Dopo il 2-0 ci fecero il 2-1, ci prese un po’ di paura. Poi segnai il 3-1 e la partita finì per davvero. Non era più il grande Real Madrid, quel gruppo di giocatori era arrivato a fine ciclo. Ma era una squadra fantastica. I secondi a vincere la coppa a Milano? No no, non mi piace dire i secondi. Lo siamo stati in ordine di tempo, e basta (ride)”.
SECONDA COPPA CAMPIONI – “Sì, in semifinale contro il Liverpool. Al’andata finì 3-1, ed è vero che l’allenatore del Liverpool nel post gara chiese ad Herrera indicazioni sul Benfica, per portarsi avanti in vista della finale, visto che Herrera aveva allenato il Portogallo. Quando rientrò negli spogliatoi, il Mago ci mise tutti al muro: “Quello str….o, mi ha detto così, cosa crede, facciamogli vedere chi siamo, a Milano li ammazziamo!”. Preparò quella partita in un modo… Mancava una settimana, ma del campionato non gliene fregava più nulla, parlava solo di quella partita. Ci fece vedere dei pezzi della gara d’andata, per vedere pregi e difetti. Lui era un genio, davvero eccezionale. All’inizio pensavamo che fosse matto, ma man mano che passavano i giorni iniziavamo a crederci. Sei giorni dopo aveva ragione lui, quelli pensavano di darcene 4. E all’andata tutto lo stadio ci cantava “When the Saints Go Marching In”. Io ero un grande appassionato di musica, andai a comprare il disco. Prima di quella partita salì in cima e consegnai quel disco agli addetti di San Siro. All’inizio mi guardavano un po’ così: “Ma Mazzola, cosa fai?”. Gli risposi: “Quando finisce la partita, mentre festeggiamo la vittoria, mettete questa canzone”. Non mi credevano: “We Mazzola, ma cosa dici?”. “Ma che sei milanista? Metti su sta canzoncina una volta vinta la partita”. Al fischio finale, quelli del Liverpool si guardavano tutti in giro, non ci capivano più nulla (ride)”.
FINALE A SAN SIRO – “Pioveva ,eravamo stanchi ma riuscimmo comunque a vincere. Tra noi e loro c’era grande differenza, ma in quella serata non si vide molto. Il gol fu un tiraccio del Jairo, il portiere rimase spiazzato. Una vittoria fantastica, in casa in finale di Coppa Campioni: era il massimo. Per Moratti era una gioia grandiosa, aveva creduto in questi ragazzi, era quello che prima di ogni partita veniva a fare discorsi alla squadra, parlava della gara precedente e ci portava le monetine, a seconda della partita. Le dava a chi aveva fatto gol, poi sceglieva il miglior difensore il miglior centrocampista e il miglior attaccante”
HERRERA, PICCHI, MORATTI – “Personaggi diversi tra di loro, ma ognuno aveva una parola e una funzione diversa. Il capitano era una cosa… cioè, non era il capitano eletto dalla società, era il capitano eletto anche dal gruppo. Se vedeva che c’era un’ingiustizia per un compagno, lui andava in società a litigare. Ricordo un rigore, a tre giornate dalla fine contro il Toro: ci basta il pari per vincere lo Scudetto, stiamo perdendo 2-1 e ci fischiano un rigore all’ultimo minuto. Con il 2-2 è Scudetto. Mi mancava un po’ il fiato, prendo la palla e vedo la porta piccola. Mi giro e c’è lì il capitano. Il terreno era fangoso, lui si tira giù le maniche e mi pulisce la scarpa destra. E così mi ha sbloccato. Era un genio, arrivava sempre prima di tutti, e difendeva chiunque. Sarebbe stato un allenatore sì, lo era già in campo. Cambiava già le posizioni in campo, dicendo che fossero indicazioni del Mago, ma non era vero (ride)”
FINALE CELTIC – “Avevamo fuori giocatori importanti, ma a parte quello eravamo arrivati. Non riuscivamo più a tenere la concentrazione per tutta la partita, non avevamo tempo di recuperare dagli infortuni, non eravamo più giovani e non era facile recuperare sempre al massimo a quei tempi. Dopo 4-5 anni così… il Mago pretendeva sempre il massimo e ti metteva una pressione addosso incredibile. Era il segreto delle sue vittorie, ma poi ti prosciugava. Lui non festeggiava alcuna vittoria, noi però a volte lo fregavamo e ci trovavamo in camera di Picchi a bere qualcosa”
CICLO FINITO – “Lo abbiamo capito, lo spirito di reazione non ci portava a niente. La stanchezza, la tensione, un po’ tutto ci aveva fatto capire che il ciclo era finito. Ci eravamo convinti che fosse giunto il momento”.
DUE INTERCONTINENTALI - “Sì, sempre con l’Independiente. Andare in Sundamerica era dura a quel tempo, 20 ore d’aereo, due scali, un clima diverso. Trovavi anche tanti connazionali che ti chiedevano di dedicargli una vittoria, ti emozionavano molto, ci chiedevano di farlo per loro. E L’Independiente era una buona squadra, era dura. Non erano male, avevano un bel calcio. Una delle due non la giocai, il Mago mi aveva trovato stanco. Mi arrabbiai come una bestia, ma poi festeggiai. Prima della partita se lo avessi avuto lì lo avrei ammazzato”
NAZIONALE – “Nel ’68 tornavamo a vincere dopo 30 anni, fu emozione grandissima. Nel ’70 la mitica staffetta con Rivera, io ricordo che i giornalisti stranieri non potevano crederci: “Da noi giochereste tutti e due”. Noi avevamo la mentalità del modulo, due mezze punte non giocavano, anche se io ormai giocavo più indietro. Si erano inventati la staffetta, io nel primo tempo e lui fresco nel secondo tempo. I pomodori dopo la sconfitta in finale, nonostante la semifinale Italia-Germania 4-3? Forse li avevamo illusi, avevano visto una grande Italia dopo tanti anni. Ma i pomodori furono una delle cose più brutte della mia carriera”
DERBY – “A quei tempi non potevi neanche camminare in città con uno del Milan. Le prime riunioni del sindacato dei calciatori le facevamo di nascosto. Avevamo compagni meno fortunati che ci chiamavano, non li pagavano più dopo 3 mesi di campionato se andava male. In una delle prime riunioni i capitani si sono riuniti in stazione centrale. Andiamo a mangiare un panino, troviamo tutti gli impiegati in pausa pranzo. Vedono me con Rivera e iniziano ad urlare: “Ue, cosa fai con quello lì del Milan?”, “Gianni, cambia marciapiede!”.
RIVERA – “Aveva un difetto grosso, la maglia, ma come giocatore… come te la dava lui pochi, No lasciamo stare: brutta maglia, tutto quello che vuoi, ma… Bulgarelli lo chiamava il Fighetta. Ma come dava la palla lui... Lui pallone d’oro e io no? Non lo vinsi perché non ebbi il voto dell’italiano: una cosa solo da italiani questa, e va beh… Arrivai secondo mi pare, ma non mi è dispiaciuto. Solo che prima della votazione mi dissero: “Non c’è problema, hai vinto tu”. E invece no”.
CRUJFF – “Nella finale persa contro l’Ajax loro erano troppo più forti, giocavano un calcio più moderno del nostro. Ci abbiamo provato i tutti i modi, ma non c’è stato nulla da fare. Questi ti inventava delle giocate… Lì non possiamo dire nulla, dietro a questi era bello anche arrivare secondi”
ULTIMO MONDIALE – “Bearzot mi propose di fare il quarto mondiale, ma ormai avevo la mente sul come strutturare la società. Ci pensai molto, perché un Mondiale per un calciatore è una roba che ti entra dentro. Ma sarebbe stato corretto andare e non essere convinto. Se ti chiedono di giocare devi essere pronto e avere la testa. Volevo esserci nel modo giusto e con la testa giusta per cui ho preferito non farlo. Mi sono rifatto da telecronista nel 2006? Mi è piaciuto molto farlo, avevo dei compagni d’avventura veramente bravi, Failla soprattutto: napoletano e tifosissimo del Napoli, ma grande intenditore di calcio”.
DIRIGENTE – “Platini ad un passo? Si si, ho ancora qui il contratto, mm le frontiere non si aprirono e l’anno dopo aveva dei problemi il presidente con l’azienda e il ministero. Anche Falcao fu vicino, ricordo quando andai a fargli firmare il contratto. Andai a Roma, ma non potevo andare né in aereo né in treno per non farmi beccare. Andai in macchina, macchina non mia. Partì con giubbotto e cappellaccio, al buio, ma trovare la strada a Roma fu un’impresa. Ebbi un grande alleato in questa cosa: la mamma di Falcao, che voleva venisse all’Inter perchè la Roma non le aveva dato la tessera in tribuna. “Non ti meritano, vai con Sandro”, diceva”.
RONALDO - “Ronnie non credevo fosse possibile. Poi quando vidi che aveva una clausola con una cifra mostruosa, con contratto già fatto dissi al presidente: “Andiamo dalle aziende a dire che abbiamo preso Ronaldo, vediamo cosa fanno. Abbiamo recuperato una marea di soldi. Alla fine ci abbiamo guadagnato. Era un ragazzo eccezionale, anzi, fin troppo. Se fosse stato più figlio di buona mamma probabilmente quando si è fatto male… Era troppo buono, poteva aspettare e fare qualcosa per venirne fuori meglio. Ma il carattere è carattere”
INTER – “Quando è morto mio padre, l’Inter mi ha dato una possibilità, due possibilità, tre possibilità. Tutto questo non ha prezzo: chiunque arriva e mi dice che non valgo niente, per me l’Inter è quella che a due bambini a cui era morto il papà ha detto: “Ti faccio diventare qualcuno”. Questo conta per me, non ha prezzo. Nerazzurro è nerazzurro, rimane dentro, non puoi tirarmelo fuori, non riesci, rimane. Me ne levi un po’? Si riforma, ricomincia da capo e torna grande come prima”
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