Dopo Javier Zanetti, anche Diego Milito, ex centravanti dell'Inter, ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni di SportWeek. Dal suo arrivo in nerazzurro in estate alla vittoria della Champions League, il Principe racconta tutto.
primo piano
Inter, Milito: “2010? Sento più mio lo scudetto. Parole dopo Madrid? Sbagliai. Con Eto’o…”
Le parole dell'ex centravanti
Arrivasti in nerazzurro dal Genoa nell’estate del 2009 e, presentandoti, dicesti: “Sono qui al momento giusto, con la giusta mentalità”. Cosa ti faceva essere così sicuro?
«Avevo 30 anni. Per età ed esperienza accumulata, prima in Spagna e poi in Italia, mi consi- deravo maturo come calciatore e pronto al salto di qualità».
Cosa portavi in dote all’Inter?
«I 24 gol in 31 partite di campionato col Genoa, al mio esordio in A; i 53 segnati nella Liga, nei tre anni precedenti al Saragozza. Il periodo in Spagna mi aveva fatto bene: avevo assaggiato il calcio europeo, mi ero confrontato con grandi squadre e grandi giocatori. La stagione al Genoa, poi, è stata fondamentale per capire la Serie A».
Il 29 giugno 2009 diventi ufficialmente un giocatore dell’Inter, ma quando arrivi a Milano? E chi ti accompagna?
«Il giorno non lo ricordo, posso dire che Milano la conoscevo bene perché ci andavo spesso a trovare i miei connazionali che sarebbero diventati compagni di squadra e che erano già amici: Zanetti, Cambiasso, Samuel. Quell’estate, prima di tornare in Argentina per le vacanze, mi fermai in città per cercare casa, così da guadagnare tempo e concentrarmi poi solo sul calcio. Dissi a mio padre che ero felice al pensiero che, da lì a qualche mese, pure io avrei fatto la Champions. Però, in quel momento, neanche immaginavo che sarei arrivato in finale, e che l’avrei decisa proprio io».
Il primo incontro in sede all’Inter: chi ti accoglie?
«Tutto lo Stato maggiore dirigenziale: il presidente Massimo Moratti, Marco Branca, Lele Oriali. Moratti mi strinse la mano e, con un gran sorriso, disse soltanto: “Benvenuto”. Nei miei cinque anni all’Inter lui si è comportato come un padre. Nei confronti di tutti, non solo miei. Per questo dico sempre che la mia gioia più grande, la sera di Madrid, vinta la Coppa dei Campioni, è stata vedere nei suoi occhi la felicità».
E l’incontro con Mourinho?
«Mi aveva già chiamato al telefono per raccontarmi il gruppo, i suoi sistemi di lavoro... Poi mi chiese se volessi il numero 22 sulla maglia. Era quello che avevo indossato al Genoa. Gli risposi: “Mister, se è libero lo prendo volentieri...”. Disse: “Veramente è di Orlandoni, il terzo portiere. Ma stai tranquillo, gli parlo io”. Grande Orlandoni, è stato fondamentale nelle nostre vittorie: spirito sempre positivo, teneva su il gruppo».
I tuoi connazionali argentini di quell’Inter: Javier Zanetti.
«Straordinario. Esempio di attaccamento al lavoro e alla maglia. Mi rispecchiavo in lui, par- lavamo di tutto. Un vero capitano. Ricordo il viaggio di ritorno in treno dopo Fiorentina- Inter 2-2. Koldrup, un difensore, ci aveva fatto gol quasi alla fine e la Roma ci aveva sorpassato in classifica. Zanetti passava tra noi, che stavamo seduti mogi a testa bassa, ed era carico a mille: “Vinceremo lo scudetto!”, ripeteva. “Capito? Lo vinciamo noi!”. E poi il Roma-Samp visto a casa mia. Se la Roma avesse vinto avrebbe avuto il titolo in tasca. La guardammo seduti sul divano, io quasi sdraiato con Agustina, nata da un mese, stesa sul petto. Segna la Samp, passa mia moglie: “Vuoi dare la bambina un po’ a me?”. “No, lasciala qui”. L’ho tenuta tutta la partita, è finita 2-2».
Esteban Cambiasso.
«Il Cuchu è il compagno tatticamente più intelligente col quale abbia giocato. Era un allenatore in campo, vedeva il gioco prima degli altri. Conosceva la sua forza e le sue debolezze, e questo fa di un calciatore un grande calciatore. Sapeva di non essere veloce, di andare in difficoltà in campo aperto e perciò teneva sempre la squadra corta. In ritiro eravamo in camera insieme. Stavamo tutto il tempo a guardare la tv, film argentini, poi io mi addormentavo un po’ prima. Con lui e Zanetti ci spostavamo a bere il mate in camera di Samuel, perché era lui a prepararlo. Con Walter dormiva Pandev, che si lamentava perché non lo lasciavamo riposare».
Samuel.
«Una delle migliori persone che ho conosciuto fuori dal campo, dotata di una bontà particolare. Ma in campo si trasformava: duro, grintoso, cattivo. Quante volte gli ho giocato contro, in Argentina o in allenamento, all’Inter e in nazionale. Avevano ragione a chiamarlo “Il Muro”: tatticamente formidabile, per lui era una questione d’onore non far segnare l’attaccante».
Hai sempre detto che quell’Inter era formata da belle persone. Ma eravate davvero amici oppure tra voi c’era solo un grande rispetto?
«No, si usciva insieme a cena. Certo, tra gli sposati con figli, com’ero io, era più facile combinare che con Balotelli, per esempio. Lui era molto giovane, aveva giri diversi. Noi andavamo al ristorante, lui in discoteca. Ma eravamo davvero un gruppo formidabile e unito: ricordo le grigliate alla Pinetina a fine allenamento, tutti insieme, compresi gli italiani ed Eto’o, a fare sera mangiando e ridendo».
Hai citato Balotelli: com’era Mario a quei tempi?
«Un ragazzino che sbagliava tante cose per via dell’età. Materazzi gli parlava tanto. Tutti gli parlavano tanto. Anche io: per consigliarlo, aiutarlo».
I brasiliani: Julio Cesar, Maicon, Lucio, Motta.
«Con Julio avevo un rapporto speciale. Abitavo in zona San Siro, lui stava al piano sopra al mio. Le nostre mogli erano amiche, andavamo al centro sportivo di Appiano Gentile insieme. Poi, certo, nelle partitelle erano sfottò: io gli dicevo in che maniera gli avrei fatto gol, lui rispondeva che me le avrebbe prese tutte».
Era un’Inter di campioni con una fortissima personalità: ci voleva uno come Mourinho per tenervi insieme?
«Sì. Lui sapeva come si guida una squadra simile: trovando un compromesso fra tutti per raggiungere l’obiettivo. Tirava fuori il meglio da ognuno, alternando bastonate e carezze. A me, in partita, ha anche urlato contro: sapeva che i rimproveri, anche quelli forti, gridati, mi caricavano a mille».
Gli italiani, Toldo e Materazzi.
«Fondamentali. Si diceva che quell’Inter era poco italiana, questo li faceva sentire ancora più importanti e coinvolti all’interno del gruppo. Matrix e Toldo ci tenevano allegri, erano dei leader in una squadra che ne aveva tanti, di leader. E altrettanti personaggi: Muntari, per esempio. Era davvero un tipo originale, e in allenamento picchiava come un fabbro».
Il tuo rapporto con Eto’o.
«Sono orgoglioso di aver gioca- to insieme a lui. Io più attaccante d’area, lui capace di giocarmi vicino come, invece, più esterno, adattandosi anche al lavoro sporco. Per l’Inter si è messo a disposizione, sacrificandosi pure come terzino».
Esclusi quelli decisivi per le vittorie finali, quali momenti sceglieresti come i più importanti di quella stagione?
«Kiev, in Champions. Siamo sot- to 1-0 a quattro minuti dalla fine, è novembre e siamo fuori dalla Coppa. Mou nell’intervallo ci aveva caricato come solo lui era capace, in campo non ci arrendiamo, la ribaltiamo io e Sneijder, nel recupero. Ancora la Champions, gli ottavi contro il Chelsea. Era la squadra da battere, avevamo pregato perché il sorteggio ce li tenesse lontani. Al ritorno in casa loro segnò Eto’o e passammo giocando una delle nostre partite migliori. Infine, la semifinale contro il Barcellona: 3-1 in casa, 0-1 fuori, in dieci. Durissima ed esaltante».
Tra di voi parlavate della possibilità di centrare il Triplete?
«Sì. Per noi era un sogno, e questo ci ha dato la forza di realizzarlo. Mou ci ripeteva che dovevamo sognare: “È bello che lo facciate, ma non dovete trasformare il sogno in ossessione”. Ci siamo riusciti e abbiamo vinto».
Consideri il secondo gol al Bayern il tuo più bello di sempre?
«La finta con sterzata su Van Buyten e il tocco sull’uscita di Butt: bello, sì. Ma quello contro la Roma, nella finale di Coppa Italia, un destro in corsa a incrociare sul secondo palo, lo metto sullo stesso piano».
Senti più tuo lo scudetto o la Champions?
«Mi sono goduto molto lo scudetto. Fu una sofferenza lunga un anno, a un certo punto sem- brava che ci fosse sfuggito...».
A Madrid, dopo la finale, dicesti: “Non so se resto”.
«Fu un errore. Nei miei anni all’Inter ho avuto offerte per andar via, ma quando si sta bene in un posto non bisogna lasciarlo. E io non l’ho fatto».
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