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In ospedale per 26 giorni, in terapia intensiva per il coronavirus. E' finito l'incubo di Giulio Mola, noto giornalista sportivo e caporedattore de il Giorno, finalmente dimesso lo scorso 27 aprile.
E' lo stesso Mola a raccontare i suoi giorni difficili a "Malpensa 24".
"È stato davvero un Inferno. Un virus terribile che mi ha messo duramente alla prova. Solo dopo esser uscito dalla terapia intensiva mi hanno detto i medici che avevo rischiato di morire. Il 2 aprile sono finito in ospedale. Avevo 41 di febbre. Da qualche giorno avevo un po’ di febbre. Una cosa mai vista prima. Non avevo particolari problemi di respirazione, ma in quella condizione non ho potuto fare altro che chiamare i soccorsi. Dopo un paio di giorni sono stato trasferito nel reparto sub-intensivo. Ero in una stanza col casco. È una cosa che non sopportavo in alcun modo anche per la mia claustrofobia".
Poi la terapia intensiva: "Grazie a Dio non sono mai stato intubato. Ma in quella stanza appena sono entrato ho visto queste file di letti con i pazienti perlopiù addormentati. Ero l’unico in quel momento sveglio. Avevo fili dappertutto, mi alimentavano con le flebo. Ho ricordi molti frammentari, ma nella mia incoscienza in quel momento non avevo consapevolezza che la situazione fosse così critica tanto da rischiare la vita. Me lo dissero più avanti"
La solitudine
"Mi ricordo che in terapia intensiva per bere mi facevano passare la cannuccia attraverso il casco. Non mi vergogno di dire che capitava che piangessi da solo, chiedendo a me stesso perché questa cosa terribile stesse capitando proprio a me. Volevo tornare a casa. Volevo stare di nuovo con la mia famiglia. Condividevo quella stanza con delle persone che come me stavano male e questa condizione di sofferenza collettiva aggravava il mio dolore e la mia tristezza”.
La liberazione
"Il week end del 25 aprile è stato la mia personale liberazione. In quei giorni ero ansioso perché sapevo che stavo migliorando tantissimo e che mi sarei dovuto sottoporre al tampone. Il venerdì faccio il tampone e l’esito è stato negativo. Così anche il secondo tampone. Chiamai mia moglie tra le lacrime dicendo che potevano finalmente venirmi a prendere. Potevo tornare a casa. Dormire di nuovo nel mio letto. Riabbracciare finalmente la mia famiglia. Gli infermieri vennero a salutarmi. Ormai ci si conosceva e ci si chiamava per nome. Si abbracciarono e mi salutarono. Per la prima volta li vidi in faccia dopo giorni e giorni in cui erano bardati. Prima sembravano astronauti, ma erano stati i miei Angeli Custodi. Non so come ringraziarli per tutto ciò che hanno fatto per me. Sono stati straordinari. Questa malattia ti distrugge dal punto di vista fisico e psicologico. Lentamente sto recuperando, ma c’è ancora tanta strada da fare, ma almeno ora sono a casa"
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