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Massimo Moratti, intervistato da Fabio Monti sul Corriere della Sera, ripercorre le tappe che l'hanno portato a cedere l'Inter:
Com’è nata l’idea di cedere la maggioranza?
«C’erano la volontà e la necessità di dare più forza alla società. Ad agosto 2012 avevamo raggiunto l’accordo con i cinesi, che era molto interessante perché prevedeva la costruzione di un nuovo stadio. L’operazione poi non è andata in porto, ma altri si sono fatti avanti per rilevare una quota. Alla fine ho pensato che Thohir potesse essere il miglior acquirente; l’idea di partenza era quella di cedere una quota di minoranza; lui invece aveva espresso la volontà di avere il 70% e abbiamo lavorato su questo».
In un giorno così si sente liberato dal peso di questi 18 anni?
«Lo pensavo anch’io, invece in questo momento prevalgono ancora il senso di responsabilità e la speranza che tutto sia stato fatto bene e in maniera equilibrata, anche se i tempi sono stati lunghi. Quando cambi qualcosa nella vita, non sai se ti dispiace oppure se ti adatti a un ritmo diverso. In questo momento, forse c’è il sollievo di pensare che questa cosa l’hai messa in mani buone. Di questo sono sicuro perché è gente molto perbene».
Lei non ha pianto nemmeno a Madrid. In queste ore c’è anche un po’ di commozione?
«Questo è un momento di attenzione, nel quale non ci si può perdere nella commozione. Poi ci sono tutti i sentimenti che appartengono a una situazione del genere. Ma è il momento di verificare che tutto venga fatto per il bene della società».
I tifosi si chiedono se l’Inter conserverà ancora l’anima che lei ha dato a questa squadra e a questa società?
«Ogni presidente dà una sua impronta, con il tempo ci potrà essere un’impronta anche diversa. L’importante è che sia sempre rispettosa di quella che è la storia dell’Inter, oltre che della propria attività e credo che queste persone abbiano in mente anche questo».
Ventitré trofei con la famiglia Moratti, due terzi di quello che ha vinto l’Inter. Una storia che nessuno dei tifosi avrebbe voluto finisse...
«Sì, ma sotto un certo aspetto continua perché rimango comunque nella società. Poi vedremo se questa mia presenza sarà utile».
Per la sua famiglia, che cos’è stata e che cos’è l’Inter?
«Non l’abbiamo mai considerata un’azienda, ma una passione. È stata qualcosa che sentimentalmente coinvolgeva molto mio padre e di riflesso tutti noi. Ed è per questo che, quando c’erano state numerose sollecitazioni per un ritorno, non mi è sembrato giusto continuare a rimanere impermeabile. Così è nata l’idea di tornare nel 1995».
Per molti quello fra l’Inter e Moratti era ed è un binomio inscindibile. Di fronte all’arrivo di un gruppo, che viene da lontano, la domanda è: che cosa significa essere interisti?
«Legarsi all’Inter significa avere la consapevolezza di compiere un viaggio avventuroso, che ti fa soffrire, ma che ti dà tante e continue emozioni».
Nei suoi 18 anni non c’è mai stata la possibilità di annoiarsi. E sono arrivati campioni immensi. Il miglior colpo?
«Penso a Ronaldo, a quello che ha significato il suo arrivo. È stato un grande investimento, che in qualche modo ha cambiato la storia. E poi penso a Ibrahimovic, che ci ha aiutato a vincere tre scudetti».
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