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«Non lo farà più nessuno». Parola di Dejan Stankovic. Oggi, 22 maggio 2020, è il decimo anniversario della conquista del Triplete da parte dell'Inter e Repubblica ha intervistato l'ex centrocampista nerazzurro, che ha ripercorso quell'impresa.
Che immagine le resta del 22 maggio 2010?
«La coppa sul piedistallo, dopo la partita, prima che Javier potesse alzarla al cielo. La guardavo e piangevo. Dovevo distogliere lo sguardo, oppure singhiozzavo. Era troppo bella».
Un suono?
«Le risate dei miei figli, avvolti nella bandiera serba. Sorridevano con mio padre e mia madre, operai entrambi. Hanno continuato a lavorare fino alla pensione, anche se avrei potuto mantenerli. A Madrid portai mezza Belgrado: 170 amici e parenti. Anzi 169, perché un biglietto l’ho tenuto come ricordo».
Cos’altro ha conservato di quella notte?
«L’abbraccio con Mourinho. Non ci dicemmo nulla. José aveva parlato prima della partita, e tanto bastava».
Cosa vi disse negli spogliatoi?
«Le finali sono fatte per essere vinte. Entrate e vincete. Non aggiunse altro. Molti di noi erano grandi, all’ultima occasione. Io andavo per i 32 anni. Venivamo da tutto il mondo, eravamo lì per un motivo. Fra noi c’erano sette o otto capitani delle proprie nazionali. Personalità forti, un gruppo pesante. Lo avevamo dimostrato dopo la sconfitta contro il Catania, a marzo».
Cosa successe?
«Mourinho era furioso. Lo ascoltammo in silenzio, poi parlammo fra noi. Nessuno alzò la voce, non sprecammo una parola. Tre giorni dopo contro il Chelsea in Champions giocammo la partita perfetta. A unirci erano il calcio, un leader indiscusso in panchina e un papà buono in tribuna».
Che rapporto ha con Massimo Moratti?
«Quando ero alla Lazio sentivo i giocatori dell’Inter parlare di lui. Pensavo fossero ruffiani, lecchini. Quando l’ho conosciuto, ho capito: nessuno ama una squadra come lui ama l’Inter».
Moratti dice che voi ragazzi del Triplete eravate completi come i Beatles: John, Paul, George, Ringo. Lei in chi si rivede?
«In quello che portava ai concerti le casse con dentro gli strumenti».
Lo fece davvero: Barcellona-Inter, semifinale di ritorno. Squalificato, aiutò a scaricare il pullman prima di sedersi in tribuna.
«Fu una sofferenza mostruosa, eccessiva. Sarei voluto entrare, menare, fare tutto. Dopo il gol di Piqué scesi negli spogliatoi, mi chiusi in bagno. Guardavo sull’orologio i secondi che non passavano mai, ero al pianto. Al boato del gol annullato a Krkic, persi i sensi».
Sapevate che a fine stagione Mourinho sarebbe andato al Real?
«L’avevamo capito, ma non ci pensavamo. Eravamo presenti al momento, come dice Michael Jordan in The Last Dance. Una storia meravigliosa».
Chi era Michael Jordan nell’Inter del Triplete?
«Il gruppo. Eravamo un corpo solo, lo saremo per sempre».
Avete una chat di squadra?
«Certo. Quello che scriviamo lì dentro resta lì dentro. Ci siamo tutti, anche José».
Dopo la vittoria del 1998 i Bulls furono smembrati. Voi rimaneste insieme ancora per un anno.
«Moratti non volle venderci, un gesto nobile. Lo ricambiammo provando a vincere, anche se eravamo stanchi, distrutti. Nel 2011 ho fatto uno dei gol più belli della mia carriera, al volo da centrocampo contro lo Schalke 04. Non bastò».
È più bello battere nel derby il Partizan, la Roma o il Milan?
«Il derby di Belgrado lo sento da tifoso, da ex giocatore e da allenatore. A Roma il derby dura due settimane. A Milano è uno spettacolo. Nella stagione del Triplete, cominciata con un pareggio contro il Bari, la svolta fu la vittoria per 0-4 sul Milan. È la forza delle grandi rivalità».
Le piacerebbe allenare l’Inter?
«Certo, è casa mia. E sono contento che Inter e Lazio siano lì su in classifica. Ne ho parlato con Mihajlovic. Se da Mancini ho imparato il lavoro sul campo, e da Mourinho la determinazione, Sinisa mi ha insegnato a non mollare. Ci sentiamo tutti i giorni, è più di un fratello, è padrino dei miei tre figli».
Filip, 18enne, è titolare nella Primavera dell’Inter.
«Sono orgoglioso di lui. È nato nell’agio ma ha la stessa fame che avevo io alla sua età».
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