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A tutto Mazzola: “La mia vita all’Inter. Picchi, Facchetti, HH e la Juventus…”

Nel corso della lunga intervista concessa ai microfoni del Corriere dello Sport, Sandro Mazzola ha parlato anche della sua carriera nerazzurra: “Benito Lorenzi, molto grato a mio padre, venne a trovarci dopo la tragedia di Superga insieme ad...

Daniele Vitiello

Nel corso della lunga intervista concessa ai microfoni del Corriere dello Sport, Sandro Mazzola ha parlato anche della sua carriera nerazzurra: "Benito Lorenzi, molto grato a mio padre, venne a trovarci dopo la tragedia di Superga insieme ad un giornalista. Ci regalò degli scarpini, ma erano quaranta e io avevo otto anni! Portava Ferruccio e me allo stadio a guardare l'Inter e se la partita andava bene, chiedeva il premio al presidente anche per noi che portavamo fortuna. Il provino? Diceva sempre che ci avrebbe accompagnato lui. Ma non lo fece. Finché il mio patrigno non decise che dovevamo provarci e andammo. Ci vide Giuanin Ferrari e ci prese. A quattordici anni firmai il mio primo cartellino, con su scritto "tesserato all'Inter a vita", nonostante Boniperti mi volesse alla Juventus. Mi chiamò, mi passò Agnelli, me la stavo facendo sotto ma tenni botta, ringraziai ma dissi che non potevo tradire l'Inter". 

HERRERA - Ci diceva che doveva allenare prima la testa e poi le gambe, ma ci faceva faticare da pazzi, compreso il lunedì. In ritiro era lui a fare la dieta, non il medico. Il giorno della partita mangiavamo filetto al sangue alle dieci di mattina, io non ci riuscivo ma mangiavo di nascosto tre panini che, per reggermi in piedi, prendevo da un mio vecchio amico che aveva una panetteria.

DOPING - C'era ai miei tempi? Le cose sono vere. Ad un certo punto in campo cominciai ad avere fortissimi giramenti di testa. Il medico mi disse che avevo dei problemi grossi e che dovevo stare fuori almeno sei mesi, anche se Herrera non lo sapeva. Da dove nascevano quei dolori? Non lo so, ma prima della partita ci davano sempre un caffè, non so cosa ci fosse dentro. Szymaniak, mio compagno di squadra, mi chiese se prendevo la simpamina, non sapevo cosa fosse ma qualcosa non andava.

ESORDIO - Avevo tre interrogazioni a scuola, mi dibattevo fra il 5 e il 6. Non ci pensavo, non era la mia priorità. Dissi a mamma che avrei giocato in Serie A, mi disse che non voleva mandarmi, la scuola era più importante. Ma anche all'Inter non sentivano storie. Parlò col preside e mi fece interrogare nelle prime tre ore, poi andai al campo in taxi. 

RICORDI - Il momento più bello è stato la prima finale di Coppa dei Campioni con il Real Madrid. Tutte le finali le giocava o le vinceva il Real Madrid, io amavo Di Stefano che tutti dicevano giocasse come papà. Al Prater me lo vidi davanti e restai imbambolato. Feci anche gol quella sera, quasi per caso. Festeggiai in modo plateale, non la finivo più. Il momento più brutto? In una settimana, nel '67, perdemmo Coppa dei Campioni e scudetto, con Celtic e Mantova

11 IDEALE - "Ghezzi, Burgnich, Jack Charlton, Picchi, Facchetti; Beckenbauer, Rivera, Pelè; Van Basten, Cruyff, Messi. Allenatore ovviamente Helenio Herrera".

PICCHI - Una volta, in una partita decisiva per lo scudetto, dovevo battere un calcio di rigore, anch’esso decisivo. Ma ero inquieto. Perché il portiere, William Negri, era con me in nazionale e sapeva come tiravo e poi perché il campo era pesante per la pioggia e il fango. Mi accorsi con sorpresa che Picchi stava venendo al limite dell’area, lui che non lasciava mai la sua. Mi vide titubante e mi disse ‘Dammi la scarpa’, poi me la pulì con la sua maglietta. Allora mi guardò negli occhi e mi rassicurò ‘Adesso puoi fare gol’

FACCHETTI - Giacinto era un grande, ha inventato un modo nuovo di fare il terzino. Fluidificava bene, segnava tanto. Nel gruppo se ne stava molto per conto suo. Per lui Herrera era una specie di Dio. Non ammetteva che sbagliasse. Quando noi protestavamo perché il Mago esagerava, era troppo cerbero, lui si metteva in disparte. 

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