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FCIN1908 – CALCIOPOLI PARTE 7: GLI ERRORI DELLA GIUSTIZIA SPORTIVA. CATALANOTTI: “Moggi? Ha ucciso i sogni. Tutti sapevano ma nessuno…”

Calciopoli in 8 puntate - Testo ad opera dell'Avvocato Bruno Catalanotti in esclusiva per Fcinter1908.it. Contro i luoghi comuni falsi e la disinformazione.

Sabine Bertagna

Con il settimo capitolo ci addentriamo nella selva oscura delle anomalie, che hanno caratterizzato e segnato il processo di Calciopoli. L'Avvocato Bruno Catalanotti si sofferma quindi su ciò che ha in qualche modo contribuito a rendere meno pesanti le condanne. A partire dall'incredibile fuga di notizie avvenuta nella fase delle indagini preliminari, che con la pubblicazione dei rapporti segreti dei Carabinieri sull'Espresso, permise agli imputati di organizzare le proprie difese e di evitare loro misure coercitive. Catalanotti denuncia quindi il singolare buonismo della giustizia sportiva, focalizzandosi su alcune contraddizioni evidenti e ricostruendo il contesto nel quale erano calate. Il tutto immerso in un'atmosfera di omertà e vergognoso revisionismo. Elementi probatori di fondamentale importanza vennero ignorati: perché? Non solo. Il sistema è stato risanato e ha imparato dai suoi errori? I colpevoli hanno pagato adeguatamente per le loro colpe in modo da dissuadere futuri trasgressori? A tutte queste domande Catalanotti ha una risposta piuttosto chiara...

(leggi qui il 2° capitolo   -  L'ALTERAZIONE DEI RISULTATI E DEI SORTEGGI)

(leggi qui il 5° capitolo - IL SALVATAGGIO DELLA FIORENTINA E DELLA LAZIO)

7° - GLI ERRORI E I PUNTI D'OMBRA DELLA GIUSTIZIA SPORTIVA

La ricognizione sinora effettuata delinea un plausibile mosaico della fattispecie fattuale e processuale di “calciopoli”, cui, però, è necessario aggiungere alcuni tasselli indicativi delle pesanti anomalie, che hanno, purtroppo, inquinato il processo, dando luogo alla infelice conclusione della estinzione di tutti i delitti contestati con la conseguente mancata irrogazione del trattamento sanzionatorio.

Infatti, nessuno degli imputati, grazie alla prescrizione, è stato colpito dalla scure della condanna penale e tale deficit ha negato al processo qualsivoglia funzione dissuasiva, anzi ne ha incoraggiato la recidiva, come dimostrato dal diffondersi quasi quotidiano delle vergognose vicende di “malacalcio”.

Non posso che reiterare ciò che ho rimarcato in ogni momento processuale, anche attraverso i numerosissimi interventi scritti, a proposito di quanto accaduto sin dal disvelarsi di “calciopoli”.

Mi riferisco a

1. La fuga di notizie. La divulgazione nel corso delle indagini preliminari dei rapporti dei Carabinieri ai P.M.

I primo giorni del maggio 2005 centinaia e centinaia di pagine dei rapporti ai P.M. di Napoli redatti dal Comando Provinciale dei Carabinieri, sono “piovute” sui tavoli di alcuni quotidiani, mentre, essendo ancora in corso le indagini preliminari, la Procura della Repubblica di Napoli stava elaborando le richieste di misure coercitive  -da inoltrare al G.I.P.-  a carico degli imputati principali (alcuni dei quali “eccellenti”) .

Ne sono rimaste, purtroppo, paralizzate le suddette iniziative dei P.M., che, esclusi i rischi di recidiva e di fuga, sarebbero state motivate dal gravissimo pericolo di inquinamento probatorio; pericolo che  la pronta divulgazione degli atti  da parte della stampa (i dossier de “L’Espresso”) ha di fatto eliso.

Anche a proposito di “calciopoli” abbiamo dovuto registrare una gravissima, letale, eversiva  -si potrebbe persino dire-  anomalia del sistema: quella inopinata, strumentale fuga di notizie, che ha consentito al settimanale L’Espresso di pubblicare nel maggio del 2006 due distinti dossier, contenenti copia pressoché integrale dei più importanti rapporti dei Carabinieri del Gruppo di Roma sulla operazione off- side.  

A memoria, è il caso più grave della storia giudiziaria di questo Paese di violazione del segreto, o, comunque, della riservatezza, che per legge deve tutelare lo svolgimento delle indagini preliminari a garanzia del buon esito delle investigazioni e del successo degli atti  “a sorpresa”.  

Esclusa ogni considerazione sulla scelta del settimanale di pubblicare quegli atti  -scelta insindacabile in contemplazione del diritto di informazione, valore costituzionalmente garantito-  ci si  domanda a chi debba ascriversi la responsabilità di tale delitto che ha investito il processo.

Qualcheduno ha evocato l’antica regola del  cui prodest ?

Da qualche parte è stato evocato il noto canone del cui prodest: in questo caso gli imputati “eccellenti” di “calciopoli”.

Non disponendo, però,  di prove concrete a riguardo,  in osservanza delle regole giuridiche e dei principi di etica, mi limito a constatare due fatti correlati al prematuro disvelamento delle indagini:

 

-ai P.M. è stata di fatto preclusa l’applicazione di misure cautelari personali e patrimoniali, non più motivate con il pericolo di inquinamento delle prove;-il processo si è svolto in un clima di evidente omertà.

La pubblicazione sulla stampa dei rapporti di polizia corredati da ampi stralci delle più importanti intercettazioni è stato di certo un ulteriore segno del potere di influenza dell’associazione criminosa o di centri di potere ad essa collegato.  

I suddetti sconvolgenti eventi hanno “deciso” le sorti del processo, caratterizzato dalla scarsissima collaborazione degli “addetti ai lavori” e dal rifiuto di essere esaminati, opposto da tutti gli imputati, anche da quelli che da compiacenti poltrone declinavano quotidianamente la loro innocenza, definendo chiacchiere da bar i frutti investigativi dell''eccellente lavoro dei  P.M. ad onta di intercettazioni, che avrebbero fatto arrossire il più incallito dei lestofanti.

 

A tutti gli imputati, che ne facevano richiesta, la dott.ssa Casoria, presidente del Collegio, ha, peraltro, consentito in ogni momento del processo il rilascio di dichiarazioni spontanee, spesso con la pretesa funzione di sterile confutazione di quanto il dibattimento aveva pochi istanti prima apportato alla piattaforma probatoria.

 

La suddetta facoltà riconosciuta agli imputati si è trasformata, pertanto, in un inaccettabile diretto contraddittorio nei confronti dei testi (tra essi, i Carabinieri, che hanno svolto le indagini)  reso al di fuori del corretto momento processuale.

 

Da allora, infatti, nessun utile elemento probatorio è stato fornito dalle persone informate sui fatti, impaurite dalla “potenza di fuoco” manifestata dal sodalizio criminoso con la divulgazione di quei documenti, usciti da casseforti usualmente inaccessibili.

 

Al riguardo, l'attività volta all'accertamento delle responsabilità non ha sortito a quel che se ne sa, alcun risultato.

                                                                                                -

2.  Il singolare “buonismo” della giustizia sportiva

 

Non è dubbio che la decisione del 14 luglio 2006 adottata all'esito del primo grado dalla Commissione di Appello Federale-C.A.F. sia stata rivisitata secondo criteri di ancor maggiore “generosità” dalla Corte Federale nel suo provvedimento del 4 agosto 2006.

 

Va detto, però, che la gestione di “calciopoli”, comunque “buonista”, della giustizia sportiva sia da ascrivere ad un gravissimo errore, in cui è incorsa, per prima, la C.A.F. e, poi, la Corte Federale.

 

Mi riferisco  alla c.d. teoria del segmento tecnico, inteso quale condotta concorrente degli arbitri nella deliberata  e, poi, conseguita, alterazione degli esiti delle gare; condotta esclusa dai giudici sportivi, pur a fronte di dati fattuali, che per la loro assoluta rilevanza, sarebbero dovuti essere attentamente valutati ed,  invece, sono stati a suo tempo colpevolmente trascurati.

 

I giudici sportivi hanno, invero, ritenuto che “l'interferenza nella designazione arbitrale, riferibile ad un tesserato, non può dar luogo ad illecito sportivo, ove non vi sia la prova rigorosa che a tale attività abbia fatto seguito l'ulteriore segmento che l'interesse per la designazione di uno specifico arbitro, manifestato da un dirigente di società sportiva, pervenga all'arbitro stesso e che da parte di esso traspaia, comunque, adesione alla richiesta.

L'assenza del “segmento” tecnico della fattispecie a formazione progressiva (tale perché necessitante la concorrente partecipazione di più soggetti, ciascuno con competenze e responsabilità di ruolo adeguati al raggiungimento del risultato alterativo della gara, competizione o classifica) ne impedisce il relativo perfezionamento, mentre non osta affatto alla possibile sussumibilità delle condotte appartenenti al segmento iniziale (condotte interferenti) e, quindi, definibili come meri atti preparatori, nel paradigma di quelle poste in violazione dell'art. 1 CGS.” (v. Corte Federale, decisione del 4/08/2006, pag. 74).

Su  tale grave errore logico-giuridico di  “lettura” ed  interpretazione dei dati probatori si  è fondato  il  proscioglimento in sede disciplinare sportiva di gran parte degli arbitri incolpati; avendo la  C.A.F.  prosciolto ai sensi degli artt. 1 e 6 del Codice di Giustizia Sportiva, a suo tempo in vigore, gli arbitri Messina, Rocchi, Tagliavento, Rodomonti e Bertini e irrogato a Paolo Dondarini la sanzione della inibizione a svolgere ogni attività all'interno della F.I.G.C. per anni tre e mesi sei, decisione quest'ultima riformata, in secondo grado, dalla Corte Federale.

Eppure, già allora  -siamo nell’estate del 2006-  era nota ai Giudici la conversazione, intercettata, tra Lanese e Capone la sera del 08/05/2005, dopo Chievo-Fiorentina 1-2.

 

Il presidente dell'A.I.A., Lanese, dopo aver risposto affermativamente alla domanda del giornalista Capone:  “Hai visto che il killer ha colpito a Verona?” riferita all'arbitraggio di Paolo Dondarini nella partita Chievo-Fiorentina 1-2, aggiunge: “...si, si, va bè era normale...te lo avevo detto io, no!...il risultato vedrai che ti dimostra che...non...c'era dubbio Antonello!...non c'era dubbio!...”.

Successivamente, come annotano i Carabinieri nel loro rapporto, i “due, poi, proseguendo, criticano pesantemente l'arbitro, ed alla successiva richiesta di Capone in merito a Dondarini”    sulle modalità di comunicazione degli “ordini-istruzioni “gli avranno mandato dei segnali o ha capito da solo?”, la sconcertante risposta di Lanese è stata la seguente: “Guarda che ormai non mandano segnali, loro telefonano prima delle gare, te lo dico io…poi ti racconterò come lo so”.

In buona sostanza, con queste espressioni il Presidente dell’Associazione Italiana Arbitri (A.I.A.) denotava la sua conoscenza di una prassi illecita coinvolgente gravissime responsabilità degli arbitri, dei quali egli era il massimo rappresentante; prassi illecita, peraltro, da lui non denunciata  a dimostrazione, tra l'altro, del suo inserimento, con un ruolo specifico, nel gruppo di persone che vi faceva ricorso, non essendo altrimenti spiegabile come ne sapesse l’esistenza, attesa la delicatezza e l’importanza della stessa.

 

Inquietante, poi, che il Presidente dell’A.I.A. giungesse al punto di promettere al giornalista di rivelare anche la fonte delle sue conoscenze in merito ad una situazione di grave illegalità che nell’esercizio delle sue funzioni avrebbe avuto l’obbligo di impedire e reprimere!    

 

Ed ancora più inquietante il proscioglimento, sia pure ex art. 530, comma 2, c.p.p., di Lanese  - condannato dal G.U.P. alla pena di anni due di reclusione quale partecipe all'associazione per delinquere, di cui al capo A)-   da parte della Corte d'Appello, sezione IV, di Napoli, con sentenza oggetto, peraltro, di impugnazione da parte della Procura Generale, purtroppo dichiarata inammissibile dalla Corte di Cassazione per ragioni formali interdittive di qualsivoglia disamina del merito.

 

Sta di fatto, comunque, che al momento della loro decisione C.A.F. e Corte Federale avevano negli atti del processo disciplinare la trascrizione, anche se non in forma peritale, della  suddetta conversazione Lanese-Capone, captata un anno prima dai Carabinieri del Comando Provinciale di Roma, trasmessa tempestivamente ai P.M. e da essi alla Procura Federale e, da ultimo, ai Giudici Sportivi.

Purtroppo, questo importantissimo elemento probatorio non è stato preso in alcuna considerazione!

Né fu conferita la dovuta valenza ad altri dati indiziari gravi, precisi e concordanti, secondo quanto richiesto dall’art. 192 n.2 c.p.p. inerenti la prova del collegamento dirigenti di società-designatori, da un lato, ed arbitro (e, talvolta, anche assistenti) dall'altro:

l’esito delle gare per le quali gli imputati sono accusati di frode, tutte conclusesi favorevolmente per le squadre “protette” (v.: Chievo-Lazio 0-1; Parma-Lazio 2-0; Chievo-Fiorentina 1-2; Lecce-Parma 3-3; Bologna-Juventus 0-1; Cagliari-Juventus 1-1; Juventus-Udinese 2-1;  Roma-Juventus 1-2 ecc.);

lo straordinario impegno per alterare il risultato delle gare interessate profuso da soggetti posti in ruoli apicali primari del mondo del calcio (ed anche, in molti casi, in altri comparti):  il dott. Mazzini, vice presidente della F.I.G.C., i notissimi Della Valle e Lotito, presidenti della Fiorentina e della Lazio, imprenditori di livello anche internazionale; Bergamo e Pairetto, dirigenti della C.A.N. con stipendi da manager;

l’assurdità logica, pertanto, che tutti costoro abbiano potuto tramare solo per hobby -così simpaticamente si interrogava Olivero Beha recentemente- spendendo in interminabili e frequentissime telefonate molte ore del loro preziosissimo tempo, senza esser certi che le loro intese sui risultati delle partite sarebbero state attuate grazie alla collaborazione degli arbitri;

la certezza ovvero l’altissima probabilità che quegli arbitri, da loro stessi prescelti, potevano essere (e sarebbero stati) raggiunti tempestivamente dalle necessarie istruzioni e che essi avrebbero obbedito agli ordini;

la situazione di dipendenza ovvero di condizionamento, in cui versavano gli arbitri nei confronti del vice presidente della F.I.G.C. e dei designatori Bergamo e Pairetto, per ragioni di “carriera”, cui sono correlati interessi monetari elevatissimi, lucidamente illustrati anche dal G.U.P.; legame che garantisce il loro fedele asservimento alle prescrizioni ricevute;

gli  interventi dei designatori Bergamo e Pairetto presso gli osservatori federali affinchè modificassero “al rialzo” i punteggi assegnati agli arbitri “domestici”, interventi documentati dalle note intercettazioni telefoniche in atti;

le vincolanti, rigide istruzioni impartite da Moggi a giornalisti addetti alle trasmissioni televisive  calcistiche (v. “Il processo del lunedì”) per “coprire”  gli errori degli arbitri “amici” (famosa, anche per la sua comicità, la raccomandazione di Moggi affinchè un fuori gioco, non rilevato, di mezzo metro divenisse di soli venti centimetri…!);

le sospensioni dalle gare sollecitate da Moggi ai designatori per punire gli arbitri ostili o solo riottosi ed indurli ad allinearsi agli ordini della associazione criminosa.

Purtroppo, dette circostanze rilevanti   -anche se valutate atomisticamente e, a maggior ragione, se nel loro complesso-  ai fini della prova degli illeciti sono state totalmente trascurate dai Giudici Sportivi che, ….conquistati dalla facile equivalenza:  prova=conversazioni intercettate (senza le quali i fatti non si intendono accertati) non hanno dato alcun credito alla prova logica, che, invece, in presenza dei requisiti fissati dall'art. 192 c.p.p., adempie pienamente alla sua funzione dimostrativa.

Applicati anche nei processi avanti alla giustizia statuale i canoni probatori della giustizia sportiva, improntati ad ineffabile “buonismo”, quasi tutti gli arbitri sono riusciti a sottrarsi  -sia pure con la formula dell'art. art. 530, comma 2, c.p.p.- alla  scure sanzionatoria, cui comunque la benevola prescrizione avrebbe poi  posto il suo efficace rimedio  ablativo.

 

Non sbagliavo di molto, dunque,  quando già nella discussione avanti al G.U.P.  sottolineavo come “calciopoli” abbia  avuto il merito, ha il merito, di aver gettato luce, di aver acceso i riflettori su uno scandalo che, pur conosciuto da tutti gli addetti ai lavori, e forse non solo da loro, nessuno era stato in grado ovvero aveva voluto arginare.

Neppure le vittime dello strapotere di alcuni degli odierni imputati, se è vero che grandi imprenditori come Lotito e Della Valle, vedendo in grave pericolo i loro investimenti nel calcio per il rischio di una retrocessione in serie B delle loro squadre, non hanno esitato a  porsi sotto il giogo, il tallone di ferro di Giraudo e Moggi.

Eppure, avevano, hanno a disposizione ingenti mezzi finanziari, rapporti in ogni settore della vita pubblica, giornali, uomini politici, quanto necessario, insomma, per reagire alle prepotenze, per denunciare le prevaricazioni e gli intrallazzi degli associati per delinquere.

Riemerge così in tutta la sua malefica efficacia la forza di coartazione degli  imputati, già denunciata per “tangentopoli” -fenomeno cui calciopoli  è unito da una cromosomica somiglianza-  laddove la sfrontata notorietà delle loro condotte, solitamente punto di fragilità di un sistema illegale, diveniva, invece, un punto di forza, perché obbligava tutti alla corresponsabilità ed alla complicità.

Solo così si spiega la profonda radicazione del costume delittuoso, del “marcio che viene da lontano”, che tutti conoscevano e nessuno rimuoveva.

A questo proposito è più che legittimo e doveroso puntare il dito accusatore anche sui vertici federali degli ultimi decenni che, pur consapevoli, hanno tollerato, omettendo ogni più elementare forma di controllo, per assumere da ultimo, come dice il capo di imputazione, anche la veste di essenziali autori delle malefatte, veri e propri concorrenti negli illeciti.

                                                                                           -

Come per “tangentopoli”, solo quando il livello di corruzione ha superato la soglia di massima tollerabilità, il giocattolo si è rotto.

Da tempo, ormai il giocattolo era solo un autoinganno, perché molti sapevano che i risultati delle partite erano “truccati”, che i valori delle società quotate in borsa erano “gonfiati”, che i controlli dell’antidoping  erano spesso lacunosi e superficiali, come la magistratura di Torino aveva messo in luce.

Si dice: non esageriamo, Moggi è un “furbetto”, che conosce i trucchi del mestiere, come ce ne sono tanti in Italia ed in giro per il mondo; Moggi  non è un mascalzone, non ha ucciso nessuno.

Non è vero: Moggi ha ucciso, ha ucciso i sogni, i sogni di milioni  di  italiani, che amano il calcio, che tifano per la loro squadra e per la loro squadra trepidano tutte le domeniche, sperando nella loro vittoria.

Ora sanno che la vittoria e la sconfitta non dipendeva dalla bravura dei loro giocatori, non era legata alle loro capacità tecniche ed agonistiche, dipendeva, almeno nelle partite che  interessavano, dalla volontà  e dalle decisioni degli odierni imputati, degli associati per delinquere dei quali oggi ci occupiamo.

Attraverso il condizionamento del sistema arbitrale, e le altre  modalità operative, talvolta illecite, puntualmente ed esaurientemente descritte nell’imputazione, i componenti dell’associazione criminosa decidevano l’esito delle partite, alteravano la classifica finale del campionato di calcio, assegnavano lo scudetto alla Juventus e facevano retrocedere il Bologna ed il Brescia, salvando dalla B altre società da loro protette.

 

Lo ha dovuto ammettere anche la giustizia sportiva, pur con i “distinguo” non condivisibili della CAF e con i trattamenti sanzionatori della Corte Federale, in taluni casi, di inaccettabile, quasi offensiva  tenuità.

 

Il Collegio presieduto dall’insigne giurista prof. Ruperto ha parlato a proposito di quegli scandali di una insana temperie, che ha investito il pianeta calcio.

Ci si è chiesto se i processi sportivi abbiano colpito adeguatamente i colpevoli e risanato il sistema.

Purtroppo, oggi la risposta è no!

Le indagini svolte in questi anni  -in questi giorni si potrebbe dire…- dalla Procure della Repubblica di Cremona, Napoli, Catanzaro e Catania ci dicono che l’illegalità nel mondo del calcio è in continua espansione.

E mentre ciò avviene, deve, invece, registrarsi, ormai da molti mesi un insidioso, insinuante, strisciante processo revisionistico su “calciopoli”.

Gli inequivoci segnali si traggono dal fatto che mentre alcuni dei protagonisti negativi della vicenda  continuano a godere di vetrine privilegiate, nessun riguardo è riservato alle società gravemente danneggiate dalla organizzazione criminosa; nessuna di esse è stata mai invitata ai dibattiti su “calciopoli”.

 

Non si scopre certo oggi il malcostume etico di questo Paese che esalta i farabutti e dimentica le vittime.

 

Si debbono ricordare  gli scellerati “falsi” eroi degli anni di piombo, ospiti d’onore di trasmissioni televisive, conferenzieri nelle aule universitarie, da un lato, e le parti offese superstiti immobilizzati nelle carrozzine ed i loro addolorati congiunti dimenticati dalla collettività?  

 

La cultura della legalità non è ancora entrata in pianta stabile nel DNA di questo Paese: occorre tempo perché ciò avvenga, perché la strada verso il bene è lunga e difficile, quella verso il male corre veloce, potendo utilizzare comode scorciatoie.

Questo processo ha interessato milioni di italiani.

Anche per questo era auspicabile che le sentenza dei Giudici fossero un premio ed un incoraggiamento verso chi  ha scelto di vivere nel rispetto delle regole.

Purtroppo, così non è stato.

Grazie alla Corte di Cassazione nel libro infinito di “calciopoli” è rimasta aperta la pagina del risarcimento dei danni dovuto alle parti civili.

MI auguro che la sua lettura si concluda  in tempi brevi e con decisioni equamente riparatorie.   

(nella prossima e ultima parte la sentenza dai tre dispositivi e lo strano no al risarcimento delle parti civili, però annullato dalla Cassazione)