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Abete: “Nessuno è padrone del calcio. Non si capisce perché invece del modello Premier…”

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Giancarlo Abete, numero uno  della LND, intervistato dal Corriere dello Sport parla degli equilibri complicati con la A e delle elezioni
Gianni Pampinella Redattore 

Giancarlo Abete, numero uno  della LND ed ex presidente  della federazione, intervistato dal Corriere dello Sport parla degli equilibri complicati con la A e delle elezioni. "Come stanno i dilettanti? Sono preoccupati. Sarebbe stato opportuno attendere ancora un anno per rendere davvero operativa una riforma che è ancora correggibile. Non ci siamo mai opposti ai princìpi, ma tante società stanno abbandonando i vivai alla luce di oneri sempre maggiori".

Con l’emendamento Mulé passa il messaggio che le leghe debbano essere rappresentate in base al loro peso economico. È un colpo per i dilettanti?

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«Le leggi si rispettano. Rischia però di essere mortificato il valore del volontariato. Il calcio è, in primo luogo, quello del milione e 116mila tesserati del nostro mondo. In Europa i riferimenti sono Inghilterra e Spagna, giusto?». 


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Giusto.

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«Bene, non si capisce perché adesso invece del modello Premier l’obiettivo della A sia diventato aumentare le percentuali. Nella struttura federale spagnola la presenza dei professionisti in consiglio e in assemblea è minima, ma questo non ha impedito alla Spagna di vincere 28 finali su 28 tra club e nazionali. Il peso dei “pro” non determina i risultati e quello dei dilettanti in Italia è il più basso tra le 5 federazioni top». 

La A chiede il 50% per il professionismo e il 35% per sé stessa.

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«Ricordo che Mulé, l’interprete autentico del provvedimento, ha parlato di 23% per la Serie A». 

La Lega Dilettanti è disposta a cedere qualcosa?

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«Vediamo. Al momento non ci è stato chiesto, né offerto nulla». 

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La sensazione è che possano farlo presto.

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«Si vuole il bene del calcio o stiamo parlando di potere? Non c’è nesso tra pesi ponderati e crescita del sistema. I pacchetti devono essere completi: mettiamo allora sul tavolo anche la mutualità al 10% che è la più bassa d’Europa, i 36 milioni che arrivano da Sport e Salute a fronte del miliardo e duecento milioni di gettito, il supporto che manca alla base, il prelievo sulle scommesse, la tax credit e più in generale le tante richieste fatte dal nostro mondo». 

 

Ci sarà l’accordo prima dell’assemblea del 4 novembre?

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«Serve dialogo, perché nessuno può permettersi il lusso di sentirsi il padrone del calcio». 

Ha mai pensato di ricandidarsi alla guida della Figc?

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«No, mai. Quello alla Lega Dilettanti è un servizio. Resto a tutela del mondo dilettantistico». 

Sosterrebbe quindi la rielezione di Gravina?

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«L’opportunità costituente non va inquinata con le logiche elettorali. Il rapporto con Gravina è sempre stato molto positivo, lo sapete». 

Lei si dimise dopo il disastroso Mondiale del 2014. Pensa che il destino di un presidente debba essere in qualche modo legato anche ai risultati sportivi?

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«Assolutamente no. Io decisi di dimettermi per evitare che costituissi un alibi» 

Se tornasse indietro?

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 «Io non ci tengo a essere un esempio. Se la mia vicenda deve essere strumentalizzata, dieci anni dopo, per affermare che chi non ottiene un risultato positivo con la Nazionale debba fare un passo indietro, allora non ci sto. Negli ultimi anni in Spagna e in Germania sono saltati diversi presidenti federali e questo non ha prodotto alcun impatto sugli aspetti tecnici. Pensiamo davvero che il miglioramento delle organizzazioni ci porterà a trovare improvvisamente diciassettenni di talento da lanciare in Nazionale?».  

Si può governare la Figc senza il sostegno del governo?

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«Da quando sono in federazione ho visto 24 governi diversi. La politica si interessa da sempre al calcio, l’importante è rispettare l’autonomia». 

Il Decreto crescita ha davvero aiutato le società o ha mortificato i vivai italiani?

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«Se l’obiettivo della norma, oggi abrogata, è rendere più forti le nostre squadre tramite l’arrivo di calciatori stranieri, allora può esserci qualcosa di buono. Se si vuole trovare un equilibrio tra la dimensione competitiva e la valorizzazione dei giovani italiani, senza dubbio, la misura non è stata e non sarà mai positiva». 

(Corriere dello Sport)

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