- Squadra
- Calciomercato
- Coppa Italia
- Video
- Social
- Redazione
ultimora
Albertosi è stato un portiere guascone, un tipo particolare. Estroso, poco avvezzo alla disciplina, propenso a tuffarsi ad angelo e a far godere il pubblico. E il Corriere dello Sport l'ha intervistato. Ecco i tratti salienti della lunga intervista:
«Era il 1968, giocavo a Firenze e sapevo da Allodi che sarei diventato nerazzurro.
Sul suo ruolo
"Poi una cena cambiò il mio destino. Una vita da portiere, si potrebbe dire. I miei coetanei erano affascinati dall’ebbrezza del gol, degli abbracci, della facile popolarità. Io no, io volevo essere l’ultimo. Perché, a dispetto del numero, il portiere non è il primo. È l’ultimo. Dopo di lui c’è solo la rete, la propria.
Gli inizi
Iniziai a giocare all’oratorio, come tutti i ragazzi della mia generazione. Lì cominciai, poi passai alla Pontremolese, in prima categoria. E lì successe una cosa strana. Il titolare era un marinaio di stanza a La Spezia che la domenica tornava per giocare. Un giorno si imbarcò per una lunga traversata. E io, che avevo quattordici anni, mi trovai a giocare da titolare. Gli altri erano tutte persone tra i trentacinque e i quarant’anni. E quei campi, mi creda, non erano i giardini di Versailles».
L’esordio
Esordimmo a Castelnuovo Garfagnana. Pioveva da matti e io, seguendo i consigli materni, mi ero tenuto la maglietta da sotto, quella di lana pesante. Al primo tuffo piombai in una pozzanghera che sembrava il Triangolo delle Bermude. Quando mi rialzai ero zuppo e mi venne un freddo cane. Presi quattro gol anche perché i palloni di quel tempo, cuoio e stringhe, quando si inzuppavano pesavano dieci volte di più e se ti arrivavano addosso sembravano una palla da cannone...».
Il sogno Inter e la lettera in ritardo
Poi un ragazzo che lavorava nella società mi portò a fare un provino con lo Spezia. Ma mi chiamarono anche quelli dell’Inter. Avevo quindici anni, ero emozionato come il bambino che ero. Andai con mia madre. La selezione cominciava alle nove del mattino, eravamo centinaia di ragazzi. Si passava le varie prove e i migliori restavano fino in fondo. Insomma, io alle sette di sera ero ancora in campo. Ma poi non mi dissero più nulla, mentre mi chiamò la squadra ligure. Premetto che mio padre voleva continuassi a studiare, mentre io volevo giocare. Fu mia madre, che passò tutta la notte parlandogli, a convincere papà. Il giorno dopo andammo a La Spezia per firmare. Quando tornammo a casa trovammo nella casella della posta il telegramma dell’Inter che mi annunciava l’ingaggio. Com’è la vita...».
L'Inter sfuma per la seconda volta
Fui convocato da Baglini, il presidente della Fiorentina, perché ero andato a giocare lì, io mi presentai dicendogli che sapevo tutto dell'offerta, che sarei andato volentieri all’Inter. Lui mi guardò come un matto e mi disse che in effetti sarei andato via, ma al Cagliari. Io mi dovetti sedere. Gli dissi che non sarei andato anche perché ero vittima di molti pregiudizi sulla Sardegna. Era il 1968, c’erano stati rapimenti e io avevo paura. Poi volevo andare all’Inter. Pian piano scoprii come erano andate le cose. C’era stata una cena in un ristorante romano, alla presenza dei presidenti viola e rossoblu. Avevano mangiato molto e bevuto di più. Alla fine della serata i cagliaritani, che evidentemente reggono meglio l’alcol, fecero firmare su un foglio del ristorante a Baglini che avrebbe ceduto Albertosi e Brugnera in cambio di Rizzo e soldi. E così, per la seconda volta, Milano sfumò. Ci sarei arrivato, poi. Da rossonero».
© RIPRODUZIONE RISERVATA