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Spazio a tanti aneddoti:
"Ingestibile? Sì, ed ero spontaneo. Portavo i capelli lunghi per proteggermi, come fossero uno scudo o una corazza, anche se non mi piacevano perché somigliavo a Branduardi e Cocciante. Arrivai all’Inter e avrei preso l’8. Mi diedero il 10, che tre anni fa mia figlia Nagaja mi ha fatto tatuare sul braccio. Pensai a Mazzola, Suarez, Corso. Cosa c’entravo io con loro? La Gazzetta fece un inserto, ce l’ho ancora a casa: in copertina io e Platini, il mancino e il destro. Cosa c’entravo io con Michel? Ma contro la Juve davo il massimo ancor più che contro il Milan. Non sapevo mai come avrei giocato: arrivavo a San Siro carico e non toccavo palla, ero reduce da una settimana di serate e facevo solo numeri. Ero così. Gli psicologi dicono che sono pericoloso quando ho tutto sotto controllo. Ma se tornassi indietro non cambierei nulla. Io voglio morire ingestibile".
Ma si allenava?
"Insomma... Un allenamento vero a settimana. Il martedì recuperavo dalle botte, il mercoledì ci davo dentro, il giovedì dipendeva, il venerdì mi sdraiavo sul lettino del massaggiatore Dellacasa con sigarette e Gazzetta e tiravo sera, il sabato provavo le palle inattive. Fumavo un pacchetto al giorno, bevevo una decina di caffè, ma i compagni mi accettavano così com’ero".
Niente regole?
"Le mie. La sera, Milano era bellissima. Cenavo tardi, poi andavo in giro, finivo al Derby o in altri locali. Sui navigli cercavo posti dove suonavano musica in dialetto. La mattina dormivo un po’ di più. Però andavo dal tabaccaio, dal barista e tutti mi volevano bene. Anche quando sbagliai quei due famosi rigori: al ritorno a San Siro il pubblico fu eccezionale".
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