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Il compagno di squadra
«Discorsi pochi, tanti fatti. Portò l’esperienza, lo spessore internazionale, che servivano ad una buona squadra per fare anche il salto europeo: e arrivò la Coppa Uefa, più di 25 anni dopo l’ultimo trofeo».
Il calciatore
«Diciamo pure il campione. Semplicemente, aveva tutto: sinistro e destro, cross, tiro, personalità. Palla a lui e sapevi di averla messa in banca».
Non ambidestro, ma ambisinistro: giusto?
«Esattamente. Un mancino il destro non lo usa praticamente mai, e invece quello era il suo “plus”: lo chiudevi sul suo piede, lui andava sul destro e trovava Bianchi sull’altra fascia. Cito Cabrini perché è stato uno dei più forti della mia epoca, non Maldini perché lui era un destro adattato a sinistra: ecco, se chiedevi ad Antonio di cambiare gioco lanciando con il destro a cinquanta metri, non sapeva farlo: Andy sì».
E sapeva anche calciare rigori, con il destro...
«L’abbiamo scoperto a quel Mondiale. Vedo che va sul dischetto e mi dico: “Ma perché calcia lui? E con il destro?”. Da noi, non li aveva mai tirati: sempre Lothar».
Uno che le ha ricordato Brehme, negli ultimi vent’anni
«No, no: sinceramente, non ne ho visti e non ne vedo in giro».
La sua partita più bella?
«Faticoso: a memoria dico Inter-Torino 2-0, l’anno dello scudetto. Nel gol del raddoppio, tutto Andy: recupero palla in scivolata e cross perfetto sulla testa di Serena, con deviazione di Brambati. A quei tempi si chiamava ancora autogol».
Il gol più bello?
«Il più importante: quello nella finale del Mondiale, per dire le palle che aveva quell’uomo».
Un ricordo che si porta nel cuore?
«Hotel Palace di Varese, a quei tempi andavamo in ritiro lì. Mi piaceva fare il giro delle stanze, trovo Brehme e Matthaeus sdraiati sul letto, con i libri di italiano in mano che si sforzano: cucchiaio... forchetta... coltello... “Che bravi”, mi dico. Poi vado in bagno e nel lavandino trovo una decina di birre, annegate nel ghiaccio. Non c’era il frigo bar, si erano arrangiati così...».
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