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C’era una volta Massimo Moratti. Lo incontravi per strada, gli dicevi «buongiorno presidente» e lui ti dava centomilalire. Così, per gentilezza. Tu gli dicevi «grazie» e lui te nedava altre centomila. Non è passato tanto tempo da allora, solo qualche anno. Certi furbastri se ne approfittavano: «Buongiorno presidente, so giocare a calcio, tifo Inter e le voglio bene». E allora lui, il presidente, alzava il tiro, esagerava: le centomila diventavano milioni, decine di milioni, addirittura miliardi (di lire, per carità). Era il grande difetto di Massimo, presidente-tifoso dal cuore grande e il pozzo (di petrolio) senza fondo.
Aveva un sacco di amici, Massimo. Per la storia delle centomila, ovvio, soprattutto perché il mondo del calcio era ed è un miscuglio di maschere pirandelliane della peggior specie, loschi figuri abituati a galleggiare nel guano fingendo che sia ambrosia. Attorno al presidentissimo, guarda un po’, era tutto un sorriso, un «sei forte Max!», le pacche sulle spalle si sprecavano, le frasi di circostanza pure. «Hai perso, ma la prossima volta andrà meglio, vedrai». Gli dicevano così. Poi, quando girava l’angolo, tutti giù a ridere, a prenderlo in giro, a canzonarlo come si fa col più buono e ingenuo dellacomitiva. «Hai visto chi ha comprato? Un tizio che si chiama Caio! Anzi no, Vampeta, quello col baffetto e col vizietto! Anzi no, ha speso due tonnellate di miliardi per Gresko, Rambert, Sorondo, Domoraud! Anzi no, ha “regalato” Roberto Carlos, Seedorf, Pirlo, Cannavaro come se fossero dei pipponi e invece erano fenomeni! Anzi no, ha dato lavoro a tre chili di allenatori, persino a Tardelli che ne ha prese sei nel derby!».
E giù a ridere a crepapelle. Poi Moratti tornava nel gruppo e ripartiva la cantilena: «Dai Massimo, sei grande, è solo sfortuna, vedrai che adesso Centofanti ingrana». Solo che Centofanti non ingranava. E neanche Macellari ingranava. E figurati se Brechet o Georgatos ingranavano. Era il primo Massimo Moratti, quello che stava simpatico a tutti perché non vinceva mai, perché non dava fastidio a nessuno, perché faceva girare il grano e incassava figuracce in serie. Poi qualcosa è cambiato. Moratti ha capito cosa vuol dire “essere un presidentedi calcio in Italia”. Ha smesso di pensare «forse un giorno diventeranno tutti come me» e ha preferito adeguarsi: «Meglio se divento io come loro». E c’è riuscito alla grande. Non ha smesso di spendere, ma ha smesso di regalare.
E d’improvviso è diventato antipatico, s’è fatto dei nemici. Semplicemente è diventato un vincente. E vien facile citare «Calciopoli» con tutto quel che ne consegue, ma è ancor più giusto parlare di Eto’o, venuto a Milano con 50 milioni in cambio di Ibrahimovic, e Sneijder preso dal Real per un pugno di noccioline, e Julio Cesar, e Maicon, e Milito, e Thiago Motta, e un certo Mancini, e un tale che non era un pirla e ci teneva a ribadirlo, e tutta una serie di intuizioni che hanno portato l’Inter sul tettuccio dell’Italia prima, su quello dell’Europa poi, fino a quello del Mondo. «Ma l’Inter ha vinto col Mazembe, sai che ci vuole» l’obiezione del nemico. Ma devi arrivarci a giocare col Mazembe, ché prima tocca resistere in dieci al Nou Camp contro Messi.
Mica Hakan Sukur, Messi. E allora tanti saluti Moratti Massimo. E grazie. Te lo dicono gli amici ma anche i nemici. E senza centomila in cambio. Te lo dice anche chi ti ha preso in giro e poi ti ha odiato. Grazie perché nel bene e nel male hai fatto la storia del calcio. Più nel bene che nel male. Non vincerai mai il Nobel per l’economia, ma quello per la passione sì. E vincerai anche il Nobel per la riconoscenza, quella di chi ha avuto la fortuna di vedere giocare Ronaldo. Quello vero. Ci siamo dimenticati Recoba. Capirà.
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