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Non ci sta Fabio Cannavaro. La teoria che il Pallone d'Oro gli venne assegnato perché con lui veniva premiata la scuola difensiva italiana e la squadra di cui era capitano, non lo vede per nulla d'accordo: "Dissento: giocai alla grande con la Juve e da Pallone d’oro al Mondiale, vedi semifinale con la Germania. Altrimenti l’avrebbero dato a un altro. La statuetta è a casa mia". I pochi italiani in classifica sono stati quasi solo reduci di Berlino: «Pirlo e Buffon. Paghiamo i mancati investimenti: settori giovanili incompleti o che si allenano su campi non regolamentari». C'è una speranza di tornare ad essere competitivi a quei livelli? «L’Atalanta: tirare su un giovane comporta sacrifici, ma conviene. Servono regole e stadi nuovi, i nostri sono semivuoti e ne hanno di migliori Turchia e Polonia. In Germania è obbligatorio investire una percentuale del budget in centri sportivi, con norme vincolanti sui giovani».
Fabio Cannavaro sta investendo molto sulla sua carriera di allenatore. Ecco le sue regole in panchina: «Se non segni, non vinci. Un allenatore gestisce gruppo e tattica. Ma a parte qualche miracolo, si vince coi calciatori forti». E i suoi appunti da calciatore? «Ho imparato tanto da Lippi, Capello e Malesani. Le mie regole: mai in conferenza con la cravatta storta e i capelli arruffati. E in panchina, anche quando perdi, mai stare seduto, per non dare il senso di resa. Il campo mi ha fatto crescere: sono più sicuro».
(Repubblica)
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