Sotto scorta dal 2014, la vita di Paolo Borrometi non è più la stessa. Il giornalista, molto tifoso dell'Inter, si è visto limitare la libertà pur essendosi limitato a svolgere il suo lavoro, che poi è anche un dovere: raccontare la realtà in maniera trasparente. E ora sogna di tornare a San Siro, come ribadito in un lungo articolo apparso sul Corriere dello Sport di oggi che vi proponiamo in maniera integrale: "Fu una serata meravigliosa, quella del 22 dicembre del 2013: all’86’ minuto di gioco Rodrigo Palacio, con una magia di tacco, regalò il successo all’Inter. Vincere un derby è sempre fantastico, ma la gioia che si prova quando la propria squadra lo vince a pochi minuti dalla fine toglie il fiato. Io che salivo dalla Sicilia per vedere le partite più importanti della stagione, e andavo fiero di non aver assistito mai a nessuna sua sconfitta in campo, ancora non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista giocare dal vivo.
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CdS – Paolo Borrometi sotto scorta dal 2014: “Sogno di tornare a vedere l’Inter”
Il racconto del giornalista minacciato dalla mafia
Da lì a qualche settimana la mia vita sarebbe stata destinata a cambiare drasticamente. Da allora avrei tifato la mia Inter davanti alla tv, ma non avrei mai più potuto vivere quelle emozioni, sentire quel brivido che ti percorre la schiena appena varchi i cancelli di uno stadio e ti trovi catapultato in quella sua scenografia incredibile fatta di colori e di suoni, di cori e di bandiere, che mi ha incantato sin da bambino. Già allora sognavo di fare il giornalista, e per quanto mi sia laureato in giurisprudenza ho fortemente voluto continuare a scrivere.
Il 16 aprile del 2014 mi hanno massacrato a calci per ciò che scrivevo: “Ora u capisti? T’affari i cazzi tuoi. U capisti?”. In un pomeriggio di sole due sagome nere con il volto incappucciato mi hanno lasciato a terra in una pozza di sangue e con una spalla rotta in più punti, come fosse uno straccio sfilacciato. Uno, due, cinque, dieci calci. In quel momento persi il conto dei colpi ma non delle parole che mi rivolgevano: “devi farti i fatti tuoi, hai capito?”. Ma in una democrazia il diritto ad una informazione libera, autonoma e indipendente è un diritto fondamentale, al pari della libertà di espressione, e non smisi di crederlo: mi sarei rimesso in piedi e avrei ricominciato a indagare, denunciare, reagire al malaffare.
La nostra terra, il nostro Paese, non ha bisogno di eroi ma solo di essere raccontata, e di una coscienza critica solida, di cittadini che non si voltino più dall’altra parte. Poi arrivò il tentativo di dare fuoco alla mia abitazione con me e i miei genitori all’interno, lettere di minacce, proiettili e un attentato scoperto (appena pochi mesi fa) dalla Polizia, con cui i clan di cosa nostra volevano farmi saltare in aria, insieme gli uomini della mia scorta. Da quel giorno di primavera del 2014 sono al quinto anno di vita sotto scorta: non è vita, e non ti ci abitui mai. Fa male anche solo quel dover scendere dalla macchina, a testa bassa, per sottrarti allo sguardo di chi ti fissa con fastidio reputandoti un privilegiato. O leggere certi “leoni da tastiera” che a volte ti ricordano che «la scorta te la paghiamo noi». Quella scorta che non ho mai chiesto. Farei cambio anche solo un giorno per poter vivere la loro vita. E vedere loro vivere la mia, di non vita. È solo per quel dannato senso di responsabilità che mi sono ritrovato a non poter più guidare, andare a un concerto, al mare, e che quel derby meraviglioso è stata l’ultima partita che ho potuto vedere allo stadio. Ma quel “bum” dell’autobomba con cui i boss di cosa nostra avrebbero voluto che saltassi in aria non mi ha tolto quella passione autentica e pura di scrivere e di sognare: una terra finalmente libera da quei lacci che la soffocano e che tento di raccontare nel mio libro “Un morto ogni tanto” (edito Solferino), o di poter un giorno vedere ancora allo stadio la mia Inter, o anche solo assistere ad un allenamento alla Pinetina. Perché anche lo sport, il calcio, è passione. Ed è per queste passioni che vale la pena di vivere. D’altronde, la nostra vita è una partita di calcio. E se non passi la metà campo non vincerai mai: tanto vale provarci".
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