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Era gente normale, gente speciale, gente profonda che si racconta sola: una squadra a basso costo, giovane, col collettivo a dare benzina al sogno di una provincia del Sud del Brasile, Chapecò, in quell’entroterra tanto lontano dalle metropoli.
Dalla serie D nel 2009 a quella massima nel 2014, fino alla gloria della finale di Sudamericana (la nostra Europa League) dello scorso anno, conquistata mordendo i fianchi del più blasonato San Lorenzo con la tipica garra di chi ha una sola occasione. Nessuna star a vestire la maglia bianco-verde: da Dener a Gil, da Bruno Rangel a Santana, da Machado a Danilo, l'ultimo a morire e il primo ad esultare dopo un miracolo a tempo scaduto, fatto coi piedi, in semifinale.
L'ultimo a morire, come tutti gli altri, nel più straziante dei finali che stravolge il petto e i sensi. Prima finale della storia, solo l'ultima tragedia del cielo: l'aereo che trasporta la Chapecoense si schianta nella notte alla vigilia del match nei pressi di Cerro Gordo, sopra la città di Medellín. 71 vittime, 6 sopravvissuti.
Sgomento tra i non convocati, nove ragazzi inebetìti all’indomani, seduti dentro uno spogliatoio rimasto orfano, gente cui un infortunio o un imprevisto ha salvato la vita, ad attendere e sperare fosse tutto falso, come un brutto voto scritto con la penna chiusa. Giovani ancora inebriati dall'odore e dai rumori della festa di quello spogliatoio, subito veleno sulle pagine dei social. Le colombe bianche dello stadio Giradot di un anno fa stridono oggi col ricordo di altrettante bare poste quel giorno sul rettangolo di gioco.
Rettangolo di gioco per nulla abbandonato dalla piccola società brasiliana, ricostruita, rifondata, rinforzata a distanza di un anno da 27 nuovi giocatori (11 giovani promossi dal settore giovanile) pronti a brillare come una promessa mantenuta. La Chape oggi c’è, nelle acque tranquille di metà classifica del Brasilerao, sotto la guida tecnica di Gilson Kleina e la supervisione di Neto, Follman e Ruschel, unici sopravvissuti il cui palmarès conta, per il 2016, la voce agrodolce della Coppa Sudamericana assegnata d’ufficio.
I ricordi sono come bolle di sapone, si inseguono l'un l'altro: sfumature granata di altre tragedie del cielo, dove posi gli occhi da bambino, col tuo pallone accanto, custodendo un sogno fatto di stadi e di riflettori. Anche se vivi in provincia. Come il grande Torino, troppo bello per farlo invecchiare; come lo United del ’58, l'Italia del nuoto del '66 e lo Zambia del '93. Ricordi tremendi ma via via malinconici, dolci, da onorare nel modo più semplice possibile, rendendo una storia tempio dei sogni di chi ha speso la vita per coltivarli. Non ci si consola se si rievoca, ma si attinge.
Gente normale, gente speciale, gente profonda che si racconta sola: Danilo, Machado, Dener, Santana e tutti gli altri, lo staff e i giornalisti che oggi più che mai ci insegnano l'attenzione. Verso le persone, le loro potenzialità, le loro bellezze, il potere dei sogni che ti portano in cielo e a volte ti fanno cadere. Come la Chape, arrivata al cancello dell'Olimpo e poi caduta. O forse no.
(Per FCINTER1908.IT, Davide Costante)
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