Intervenuto ai microfoni de La Gazzetta dello Sport, Ivan Ramiro Cordoba, ex centrale dell'Inter, ha ricordato i duelli con Andriy Shevchenko: «Sapevo di dover essere all’altezza di un Pallone d’Oro e il mio orgoglio di aver giocato così a lungo in Serie A è nato e vive proprio per il fatto di aver affrontato fuoriclasse come lui. Campioni che hanno fatto di quegli anni uno dei periodi più belli del calcio italiano».
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Cordoba: “Orgoglioso per aver affrontato Shevchenko. Ma nessuno era come Ronaldo”
Le parole dell'ex centrale nerazzurro
Cosa ricorda di quell’avversario?
«Anzitutto che era leale, fortissimo si sa. Shevchenko esprimeva tutto il suo calcio sempre pensando anzitutto alla squadra e senza fare cose strane. Senza fare il fenomeno, per essere più chiaro».
Ma a volte serviva essere duri, con lui.
«Un difensore deve far sempre “sentire” all’attaccante che c’è, ma non lo ricordo come un avversario lamentoso, per niente. Ma soprattutto non era uno di quei rivali che ti fanno venir voglia di picchiarli, anche se faceva di tutto per farmi arrabbiare...».
E c’è riuscito diverse volte.
«Sì, diverse volte. Ma diverse volte è riuscito a me: lui ha segnato tanti gol, io gliene ho tolti tanti, evitandoli. Ma il calcio è così: ci si ricorda sempre di chi fa gol, quasi mai di chi non ne fa segnare».
Ma perché toccava sempre a lei marcarlo?
«Perché era veloce, rapido e forte di testa. Se affrontavi Shevchenko sapevi una cosa: se arrivava la palla alle spalle della difesa e la prendeva lui, novantanove volte su cento era gol. Ma non ricordo suoi gol in cui è partito e si è trovato solo davanti al portiere».
Ma ad un certo punto sentiva come una “condanna” il fatto di doverlo marcare?
«Mai avuta l’ansia di dover affrontare un avversario. Primo perché esiste una difesa di squadra e io ho sempre avuto fiducia nei miei compagni: non mi sentivo solo contro Shevchenko, mai. Secondo perché sapevo che era anche una sfida personale e dunque mi preparavo mentalmente, molto: era concentrazione, non ansia».
E lo studiava, prima di affrontarlo?
«Assolutamente sì: quando devi vedertela con uno imprevedibile com’era lui, l’unica cosa che puoi fare è cercare di ridurre le probabilità che possa sorprenderti».
Shevchenko ci riuscì subito, già alla prima sfida: Milan-Inter 2-3 e sua doppietta, il 12 gennaio 2000.
«Prima di quel giorno lo avevo visto solo in tv, ma un avversario è tutta un’altra cosa quando ce l’hai di fronte: capii in fretta con chi avrei avuto a che fare. E quel giorno non ero granché felice anche se avevamo vinto: un difensore vorrebbe sempre finire una partita con zero gol presi».
La volta in cui andò meglio fu nella semifinale di andata della Champions 2003, ma fu un’illusione.
«Quella partita la giocammo a tre: io, Materazzi e Cannavaro. Quasi uomo contro uomo con Sheva e Inzaghi, ci diedero poco fastidio ma non ero contento neanche quel giorno: almeno un gol dovevamo farlo. Anche perché sapevamo già che difficilmente Shevchenko sarebbe stato due partite senza segnarci».
E infatti...
«Infatti al ritorno segnò, e finì 1-1. E pensare che giocai anche bene, ma se quel giorno c’era qualcosa che poteva andare, andò male: il contrasto prima del gol con la palla che gli resta sul piede me lo sono sognato per un sacco di tempo».
Ha detto: Shevchenko è stato l’avversario più difficile della mia carriera con Ronaldo.
«Mai nessuno ha avuto il dominio del pallone e la potenza in velocità di Ronaldo. Però lui l’ho affrontato solo con la nazionale e quando era al Milan, ovvero quando non era più lui. Sheva è stato il più difficile in Italia non solo per i gol che ha segnato: perché era un attaccante completo e pure furbo. Non potevi mai perderlo di vista: per lui diventavano decisivi i centimetri, non i metri, che ti prendeva. Sheva partiva da sinistra, da destra, lo trovavi dappertutto, come quel rompiballe di Inzaghi. Però, con tutto il rispetto, se partiva Inzaghi riuscivo a riprenderlo, se partiva Shevchenko era una scommessa: forse lo riprendo, forse no. E se lui non lo riprendevi, nove volte su dieci era gol».
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