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"Suarez arrivò a Milano a 26 anni compiuti, portando nel gruppo quell’esperienza che agli altri mancava. Prima della finale di Coppa dei Campioni a Vienna contro il favoloso Real Madrid, 27 maggio 1964, la prima delle due vinte in nerazzurro, i compagni andarono da Luis per parlargli di quel Di Stefano appena visto da vicino («È alto due metri!» sussurrava Mazzola) e naturalmente di Puskas («Il Colonnello, il Colonnello… », ripeteva Picchi), e allora Suarez tagliò corto: «Siamo venuti qui per batterli, non per chiedergli l’autografo». Erano tempi inimmaginabili. Con i primi guadagni veri, Luisito non si comprò una fuoriserie o un orologio tempestato di diamanti, ma le quote di un maglificio, perché allora il calcio sostituiva un lavoro per qualche anno soltanto, poi bisognava pensare al domani".
"Quanto lo hanno amato, i nostri papà e i nostri nonni, non necessariamente interisti. Perché non si poteva non essere conquistati dall’apparente semplicità dei suoi gesti in purezza, quei passaggi da est a ovest, da ovest a est, valicando qualunque confine con la precisione di una carta millimetrata. E quanta malinconia, adesso, nel salutare per sempre un omino gentile, riascoltando a occhi socchiusi il suo passo asimmetrico in corridoio, piede, bastone, piede. Un inganno dei sensi. Il corpo forse zoppicava, ma il signor Luisito era ancora trasparente e leggero come un aquilone".
(Repubblica)
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