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Crosetti: “Suarez, l’architetto di Herrera che fece Grande l’Inter. Ai compagni spaventati…”

Nella mattina di ieri si è spento a 88 anni Luis Suarez. Su Repubblica il giornalista ricorda così l'architetto della Grande Inter

Nella mattina di ieri si è spento a 88 anni Luis Suarez. Protagonista indiscusso della Grande Inter, Luisito è stato l'unico spagnolo a vincere il Pallone d'Oro. Dalle colonne di Repubblica, Maurizio Crosetti ricorda così Suarez: "I nostri padri e i nostri nonni raccontavano Suarez (“Ah, Luisito Suarez…”) come si prova a narrare la perfezione, come se esistessero davvero le parole per dire chi furono Michelangelo e Mozart, George Best e Vittorio Gassman. Perché, signori, qui si dice addio a uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, il numero 10 della Grande Inter di Herrera".

"Il primo e unico Pallone d’Oro spagnolo, un regista che sapeva segnare, dribblare, lanciare corto ma soprattutto lungo: passaggi al volo di 50 metri sui piedi del compagno in corsa. E che personaggio, che persona. Ironico, gentile, disponibilissimo con tutti. Prima arrivava il suo sorriso e poi, negli ultimi anni con l’aiuto di un bastone, quando si presentava un po’ zoppicando, ecco lui, don Luis il leggendario. Ma se provavi a fargli notare il volume di quella leggenda, lui ti guardava come un meccanico che sta per smontare un motore e così lasciavi perdere".

"Suarez arrivò a Milano a 26 anni compiuti, portando nel gruppo quell’esperienza che agli altri mancava. Prima della finale di Coppa dei Campioni a Vienna contro il favoloso Real Madrid, 27 maggio 1964, la prima delle due vinte in nerazzurro, i compagni andarono da Luis per parlargli di quel Di Stefano appena visto da vicino («È alto due metri!» sussurrava Mazzola) e naturalmente di Puskas («Il Colonnello, il Colonnello… », ripeteva Picchi), e allora Suarez tagliò corto: «Siamo venuti qui per batterli, non per chiedergli l’autografo». Erano tempi inimmaginabili. Con i primi guadagni veri, Luisito non si comprò una fuoriserie o un orologio tempestato di diamanti, ma le quote di un maglificio, perché allora il calcio sostituiva un lavoro per qualche anno soltanto, poi bisognava pensare al domani".

"Quanto lo hanno amato, i nostri papà e i nostri nonni, non necessariamente interisti. Perché non si poteva non essere conquistati dall’apparente semplicità dei suoi gesti in purezza, quei passaggi da est a ovest, da ovest a est, valicando qualunque confine con la precisione di una carta millimetrata. E quanta malinconia, adesso, nel salutare per sempre un omino gentile, riascoltando a occhi socchiusi il suo passo asimmetrico in corridoio, piede, bastone, piede. Un inganno dei sensi. Il corpo forse zoppicava, ma il signor Luisito era ancora trasparente e leggero come un aquilone".


(Repubblica)