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Deschamps: “Contento per l’Italia, chi vince è il più forte. No al Mondiale ogni 2 anni”

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Intervistato da Repubblica, il CT della Francia Didier Deschamps si è raccontato, partendo dall'esperienza alla Juventus

Matteo Pifferi

Intervistato da Repubblica, il CT della Francia Didier Deschamps si è raccontato, partendo dall'esperienza alla Juventus:

«Una parte di me è italiana. Sei anni in una vita sono pochi ma nel calcio sono tantissimi, mezza carriera. Sono marchiato da quello che ho vissuto da voi. E sbagliai ad andare via dopo aver allenato la Juve in serie B».

Si sente un po’ italiano anche nel lavoro?

«Da calciatore ho trovato a Torino tutto quello che volevo: l’esigenza del risultato, la cultura della vittoria, una società con ogni persona al posto giusto, un ambiente familiare. Arrivai in un momento felice, con Lippi, Moggi, Bettega e Giraudo. Quell’esperienza mi è servita eccome, anche se oggi non faccio quello che facevo 20 anni fa e quello che ho imparato l’ho dovuto adattare alle mie caratteristiche».

Ci vede un po’ meglio dal suo punto di vista privilegiato?

«Sono contento per voi. Chi vince è il più forte, nulla da aggiungere: l’ho detto anche a Mancini dopo Wembley, anche se non so se ha ricevuto il messaggio che gli ho fatto recapitare. Per voi c’è stato un momento durissimo. Non è stata una tempesta, di più: uno tsunami. Ma è stata anche l’occasione per riflettere e fare le cose diversamente. Adesso forse da voi il gioco è più aperto, ma sono valutazioni che vanno fatte su un periodo più lungo. Ma di certo era nel momento più duro che dovevate ripartire».

Questo è il suo momento più duro?

«Avremmo potuto fare diecimila cose diversamente prima, ma non sarebbe cambiato nulla di quello che è successo in quei 10’ contro la Svizzera. Non ho cercato risposte né giustificazioni, sarebbero diventate delle scuse: l’unico responsabile di ciò che è successo sono io».

Dopo il titolo del 2018, la Francia non ha mantenuto tutto ciò che prometteva: è una valutazione corretta?

«Dei 23 campioni del mondo qui con me ne ho 8. Ho fatto cambiamenti importanti, ho dovuto ossigenare il gruppo con i giovani, c’è molta concorrenza interna: persino tra due fratelli come gli Hernandez. Quello che abbiamo fatto in Russia non si può ripetere pari pari: ci sono diversi modi di arrivare alla vittoria, e io sono qui per trovare soluzioni».

È Pogba la vostra guida, oggi?

«È leader sul campo e anche a livello comunicativo: nello spogliatoio si esprime con le parole giuste, anche nel modo di dirle».

Però scapricciava spesso sulla posizione in campo, anche in Russia.

«Lui ha bisogno di toccare il pallone. A Manchester vedo che lo mettono spesso a sinistra, ma non è tanto la posizione che conta, è far passare il gioco da lui. Senza contare il lavoro che fa: contro la Finlandia ha recuperato 17 palloni, che a livello statistico sono un’enormità».

Mbappé sembrava più forte due anni fa: è d’accordo?

«A 22 anni ha già giocato 50 partite in nazionale: vi rendete conto? Il problema è che lui è stato subito grandissimo, suscitando attese talmente alte che sembra che non le mantenga mai. Però fa parte di quei pochi giocatori al mondo che non hanno bisogno degli altri, perché da solo può fare la differenza».

Gli farebbe bene cambiare squadra e campionato?

«Per me che giochi a Madrid o a Parigi non cambia niente. Adesso la scelta è sua e se le scelte sono buone lo sai solo dopo».

Il tridente stellare del Psg fa fatica, se lo aspettava?

«È facile aggiungere talento a talento a talento, ma poi serve l’equilibrio. Non basta dire: metto il tridente. E gli altri sette? Io ci ho provato con Benzema, Griezmann e Mbappé: non dico che non abbia funzionato, ma poteva funzionare meglio. E sto ancora lavorando per farlo funzionare».

Ha pensato di mollare, questa estate?

«Dopo l’eliminazione il mio presidente ha voluto sapere quali fossero il mio spirito, la mia determinazione, la mia voglia di continuare, anche se per la verità poteva cambiare a prescindere dalle mie risposte. Io ho voluto staccare un po’ per fare un’analisi il più possibile oggettiva: il risultato è che sono ancora qui, e non vado avanti tanto per farlo».

Nove anni da ct non sono troppi?

«Lo dico con grande onestà: non so quale sarà la mia vita dopo il Mondiale, ma sarà bella lo stesso».

Ha voglia di tornare ad allenare un club?

«Sono mestieri diversi e mi piacciono tutti e due. Quale sarà il prossimo non lo so, oggi sono qui senza pensare a quello che potrà essere».

È favorevole al Mondiale a cadenza biennale?

«No, si banalizzerebbe la competizione, ma la mia opinione e quella di altri anche più importanti di me non contano niente».

Ne ha parlato con Wenger?

«No».

Il suo successore sarà Zidane?

«Per fortuna non deciderò io. Sappiamo l’immagine che ha Zizou, ma ci sono tanti bravi allenatori per cui la Nazionale, se non un obiettivo, può essere un’opportunità».

Perché la Francia continua a sfornare talenti?

«Ci aiuta la situazione economica del nostro calcio: i club di League 1 fanno giocare i ragazzi di 17 anni e quando arrivano a 20 hanno già esperienza a sufficienza per andare all’estero, dove tutti li vogliono perché si fidano della formazione che hanno ricevuto».

Lei cos’ha sacrificato alla carriera?

«Non posso dire che il calcio mi abbia tolto qualcosa. È la vita che mi sono scelto, ho fatto di tutto per arrivare il più in alto possibile ma non riesco proprio a chiamarli sacrifici. Il pallone non è un lavoro, lavora chi si alza tutti i giorni alle 6 per sfamare la famiglia. La realtà è che non ho mai lavorato un giorno in vita mia».

La Nations League può risarcirvi della delusione europea?

«Non si può cambiare quello che è successo, ma nemmeno minimizzare questa competizione: prima i trofei per nazionali erano due, adesso sono tre e ci sono quattro tra le migliori nazionali al mondo che cercheranno di conquistarne uno».

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