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Donadoni vince “Il bello del calcio”. Facchetti: “Impossibile che mio padre non…”

Sarà consegnato oggi, a Cesare Prandelli il premio “Il bello del calcio”, giunto alla sua decima edizione. Nato nel 2006 dalla volontà della Gazzetta dello Sport di ricordare Giacinto Facchetti, bandiera dell’Inter e difensore della...

Riccardo Fusato

Sarà consegnato oggi, a Cesare Prandelli il premio “Il bello del calcio”, giunto alla sua decima edizione. Nato nel 2006 dalla volontà della Gazzetta dello Sport di ricordare Giacinto Facchetti, bandiera dell’Inter e difensore della Nazionale, scomparso proprio nel 2006 a 64 anni.

Ed è proprio il figlio del grande terzino nerazzurro, Gianfelice, a tessere lo lodi dell’attuale allenatore del Bologna: “Se parlando di calcio usiamo la parola «bellezza», è perché un gesto tecnico o un’azione richiamano per un attimo la nostra capacità di stupore, gli occhi leggono il fotogramma e riscopriamo la meraviglia del gioco che ancora ci illude ogni domenica. Capita invece di rado che alla bellezza di ciò che ci appassiona ci venga di accostare qualcosa di meno luccicante e più scomodo, un termine un po’ desueto come «giustizia.

Pensando a Roberto Donadoni, credo che la dicitura corretta per questa decima edizione del Premio sia «Il bello e il giusto del calcio». Non è così? Quando a inizio stagione l’abbiamo visto fuori dal valzer delle panchine, non ci è sembrata un’ulteriore vigliaccata nei suoi confronti e di chi ha lottato con lui per dare dignità alla città di Parma e ai suoi sportivi? «Ricomincio dall’Emilia, terra seria e operosa...», disse dopo aver firmato con il Bologna; fortuna sua e nostra che non abbiamo smarrito per le strade del calciomercato un allenatore che non ha fumo da vendere, né parole facili da buttare al vento.

Lo vidi da vicino per la prima volta quando avevo circa dieci anni, tornavo con mio padre da Coverciano e venne in macchina con noi fino a casa dopo un raduno dell’Under 21, quella che sarebbe diventata la Nazionale delle notti magiche di Italia 90. Ricordo poco di quel viaggio se non la compostezza e il garbo di un giovane calciatore che da lì a poco avrebbe fatto ammattire i terzini di mezzo mondo, alzando trofei su trofei col suo sorriso trattenuto così lombardo, così bergamasco. Impossibile che mio padre non avesse sognato di vederlo indossare il nerazzurro dell’Inter dopo quello dell’Atalanta, impossibile perché anche solo da lontano i due avevano più di qualcosa in comune, nelle maniere e nel sentire.

Anche se Eupalla non volle così l’ammirazione rimase intatta, per le pagine scritte col Milan certo ma ancora di più per quelle marchiate in azzurro, grazie al sentimento che salda in un patto tutti i campioni che hanno sudato e gioito per la nostra bandiera.

Donadoni l’ha fatto da calciatore e da commissario tecnico: nove anni fa esatti, quando a Bergamo si giocò Italia-Turchia per ricordare Facchetti, era seduto in panchina all’inizio del suo viaggio da c.t. con lo stesso viatico di sempre fatto di senso del dovere e poco altro. Da lì in avanti abbiamo potuto conoscerlo meglio, fino ad apprezzarlo sempre di più. Tra presidenti incontentabili, dirigenti malintenzionati e mezze tacche, ha fatto parlare il suo lavoro, ripartendo spesso un passo dietro dal punto in cui era arrivato con merito, senza protestare. Si è indignato come pochi sanno fare in un mondo in cui la regola che vale di più è l’omertà. «Se uno sbaglia non deve fare più questo lavoro! Chi ha fatto il malandrino non deve fare più parte del calcio...», disse alla Gazzetta pochi mesi fa col suo carattere così lombardo, così bergamasco, fiàma de rar, sota la sènder, brasca : difficile che si infiammi ma sotto la cenere c’è la brace.”