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Eriksen, il cardiologo Pappone: “Penso sia miocardite. Il defibrillatore…”

Getty Images

Le parole del responsabile dell’Unità operativa di Aritmologia Clinica e del Laboratorio di Elettrofisiologia all’IRCCS Policlinico San Donato di Milano

Marco Astori

Intervenuto ai microfoni de La Gazzetta dello Sport, Carlo Pappone, cardiologo e responsabile dell’Unità operativa di Aritmologia Clinica e del Laboratorio di Elettrofisiologia all’IRCCS Policlinico San Donato di Milano, ha parlato così di quanto accaduto a Christian Eriksen sabato scorso.

Secondo Lei che cosa potrebbe aver causato l’arresto cardiaco che ha colpito Eriksen?

“Non ho informazioni dirette sulle condizioni di salute di Eriksen e non posso dire che cosa abbia causato l’arresto cardiaco. Ritengo improbabile si tratti di miocardite, ma con certezza posso solo dire che è stato provocato da una aritmia ventricolare che è stata fermata grazie alla scarica di un defibrillatore esterno applicato al torace del paziente. E’ accaduto, in altre parole, quello che dovrebbe accadere nella vita normale. Eppure ogni anno nel mondo 4-5 milioni di persone muoiono improvvisamente perché non hanno la fortuna di avere un arresto cardiaco in un campo di calcio, dove ci sono diversi medici pronti ad intervenire, ma in famiglia, da soli in casa o per strada. La causa principale di un arresto cardiaco è una malattia coronarica. Mi riferisco all’infarto, che però solitamente colpisce dopo i 50 anni. Noi oggi stiamo parlando di un arresto cardiaco in un atleta professionista molto giovane. E in questo caso si potrebbe trattare di una malattia genetica.

Noi nel nostro Dna abbiamo scritto quanto durerà la nostra vita e quando si fermerà. Poi ci sono dei fattori che possono accelerare o ritardare questo evento, ma è quesi tutto scritto. Per questo motivo sarebbe opportuno che sui giovani che hanno una storia familiare a rischio non si eseguisse solo il banale elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma, ma si approfondissero anche gli aspetti genetici,si eseguisse una risonanza magnetica e soprattutto che l’elettrocardiogramma fosse scrutato in maniera molto più approfondita da esperti. Oggi i medici dello sport, che sono coloro che concedono la certificazione a praticare lo sport, sono molto bravi e competenti nelle cosiddette malattie ortopediche. Non è il loro mestiere approfondire gli aspetti correlati alle malattie cardiache. E questa è una anomalia”.

Lei ha subito sottolineato che quanto accaduto ad Eriksen in realtà non è così raro…

“Quello che si è verificato durante la partita tra Danimarca e Finlandia si verifica almeno 30mila volte all’anno in Italia, 400mila volte all’anno in Europa e 4-5 milioni di volte nel mondo. Ci sono famiglie rovinate dalla morte improvvisa. Noi dovremmo non solo parlare di sport ma di come comportarci per evitare che la nostra vita si interrompa durante lo sport”.

Secondo Lei Eriksen tornerà a giocare?

“Vi sono alcune malattie cardiache che a causa dell’attività fisica peggiorano. Poi vi sono alcune malattie genetiche (come la sindrome del qt lungo) in cui durante attività fisica si crea l’arresto cardiaco. La combinazione tra una predisposizione genetica, una storia familiare, cattive abitudini alimentari e cattiva gestione del proprio corpo, con un esagerata richiesta di sforzo fisico, consumo di sostanze ed eccessiva perdita di elettroliti può essere un mix micidiale. Ma queste cose si verificano sui campi di calcio dei dilettanti, nei campetti degli oratori. E quando in una famiglia si verifica una morte improvvisa è molto probabile che la cosa si ripeta. Oggi è bene parlare di morte improvvisa per poter salvare milioni di persone. Eriksen potrà così motivare le persone a monitorare il propio stato di salute”.

Il defibrillatore sottocutaneo impiantato ad Eriksen eliminerà ogni rischio?

“Si tratta di una tecnologia straordinaria che non cura la malattia, che permane, ma che interviene quando questa malattia evolve nell’arresto cardiaco: semplicemente erogando uno choc elettrico, questo defibrillatore ripristina il ritmo cardiaco e fa tornare a vivere. E’ una terapia standard da oltre trent’anni, solo in Italia se ne impiantano 50mila l’anno, nel mondo alcuni milioni. Ma è importante che se ne parli: così molti pazienti che rifiutano il defibrillatore oggi sapranno che non è così inusuale”.

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